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Friedman, l’attualità di un messaggio equivocato

Oggi sono in pochi a concordare con un manifesto che ha dominato la scena economica per decenni. Ma ha ancora senso rileggere quel messaggio

Luca Enriques

Quelle considerazioni restano valide, anche se oggi meccanismi sociali e di mercato premono per ridurre le frizioni tra interessi degli azionisti e il benessere sociale. Se è vero che la responsabilità sociale della grande impresa monopolistica può servire a cementarne il potere, in tempi di mercati sempre più concentrati come nel settore tecnologico, il suo scetticismo merita ancora attenzione. 

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Il 13 settembre 1970 il New York Times pubblicò un articolo di Milton Friedman dal provocatorio titolo “La responsabilità sociale delle imprese è di aumentare i profitti”. Un grafico che misurasse quanto opinione pubblica e mondo degli affari abbiano concordato con questa affermazione nel corso di cinquant’anni riporterebbe per il 2020 uno dei punti più bassi. Un mesto anniversario, dunque, per un articolo diventato nel frattempo il manifesto di una visione che ha dominato la scena economica dei paesi anglosassoni per almeno trent’anni e vissuto qualche anno di gloria anche dalle nostre parti. Ma il fatto di simboleggiare un modo di fare impresa ha finito per offuscarne i contenuti nella memoria collettiva: si ricorda lo slogan del titolo, ma non i ragionamenti sottostanti. Un riassunto è dunque utile prima di riflettere se esso mantenga una sua attualità. In sintesi, secondo Friedman:

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Il 13 settembre 1970 il New York Times pubblicò un articolo di Milton Friedman dal provocatorio titolo “La responsabilità sociale delle imprese è di aumentare i profitti”. Un grafico che misurasse quanto opinione pubblica e mondo degli affari abbiano concordato con questa affermazione nel corso di cinquant’anni riporterebbe per il 2020 uno dei punti più bassi. Un mesto anniversario, dunque, per un articolo diventato nel frattempo il manifesto di una visione che ha dominato la scena economica dei paesi anglosassoni per almeno trent’anni e vissuto qualche anno di gloria anche dalle nostre parti. Ma il fatto di simboleggiare un modo di fare impresa ha finito per offuscarne i contenuti nella memoria collettiva: si ricorda lo slogan del titolo, ma non i ragionamenti sottostanti. Un riassunto è dunque utile prima di riflettere se esso mantenga una sua attualità. In sintesi, secondo Friedman:

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1. Parlare di responsabilità dell’impresa non ha senso perché la responsabilità è degli individui. Le società per azioni sono persone giuridiche e possono avere una responsabilità, ma esse agiscono tramite i propri amministratori e manager. Dunque, sulle responsabilità di questi occorre concentrare l’attenzione. I manager sono dipendenti della società per azioni, che a sua volta è di proprietà dei suoi azionisti. Dunque, i primi devono agire in conformità ai desideri degli azionisti. Salvo che gli azionisti stessi determinino esplicitamente uno scopo altruistico, ciò vuol dire mirare a fare il massimo di profitti “nel rispetto delle regole fondamentali della società [society], quali si evincono sia dalle leggi sia dalle norme morali”.

2. Se i manager avessero anche una responsabilità sociale, avrebbero il dovere di agire contro gli interessi dei loro datori di lavoro, ad esempio assumendo disoccupati cronici per combattere la povertà invece che assumere i lavoratori più capaci. Così facendo, spenderebbero danaro degli azionisti per perseguire un interesse generale. In altri termini, imporrebbero una tassa agli azionisti e deciderebbero anche come usarne i proventi. Questo è un compito eminentemente politico, che dovrebbe essere il frutto del processo democratico, non delle decisioni di un privato scelto da una ristretta cerchia di individui (gli azionisti stessi) e per di più probabilmente privo delle competenze necessarie per fare scelte politiche.

3. Ma, si obietta, se ci sono seri e urgenti problemi economici o ambientali, allora è necessario che i manager li affrontino senza aspettare le scelte della politica, che sono sempre tardive e imperfette. Friedman risponde che è antidemocratico che dei privati, con soldi altrui e di regola sfruttando le rendite monopolistiche della grande impresa di cui sono a capo, impongano alla collettività le proprie preferenze politiche su come affrontare e risolvere tali problemi, che dovrebbero essere invece affrontati attraverso il gioco delle istituzioni democratiche.

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La distinzione è fondamentale: il mercato si basa sulla regola del consenso; non c’è scambio senza il consenso di chi vi partecipa. La politica, viceversa, opera secondo il principio di maggioranza, che vincola la minoranza dissenziente. L’intervento della politica è necessario, perché il mercato è imperfetto. Ma la dottrina della responsabilità sociale estenderebbe all’ambito del mercato i meccanismi della politica, poiché un soggetto (privato e munito di potere monopolistico) imporrebbe agli altri la propria volontà politica. Spesso l’idea di responsabilità sociale dell’impresa è solo un esercizio di pubbliche relazioni per giustificare scelte manageriali coerenti con l’interesse degli azionisti: curare il benessere dei propri dipendenti, rispettare le comunità locali e così via può ben essere (di regola è) nell’interesse di lungo periodo delle società per azioni. Anzi, ammantare queste azioni sotto l’etichetta della responsabilità sociale dell’impresa, come ai suoi tempi era (ed è oggi!) di moda fare, può di per sé contribuire ad aumentare i profitti. Ma si tratta di un gioco rischioso: magnificare la responsabilità sociale dell’impresa e mostrarsi scettici sui benefici sociali dello scopo di lucro può erodere la fiducia pubblica nel sistema capitalistico e rendere più probabili interventi correttivi dello stato se le società per azioni non si dimostreranno all’altezza delle aspettative che creano con la loro retorica.

Gli spunti di Friedman per il lettore del 2020 sono numerosi. Mi soffermerò qui su tre aspetti.

1. Friedman assegnava un ruolo totalmente passivo agli azionisti delle società per azioni: all’epoca in cui scriveva erano perlopiù persone fisiche e raramente votavano in assemblea. Oggi, la gran parte degli azionisti sono investitori istituzionali, ossia soggetti che devono agire, in quanto gestori di fondi altrui, alle dipendenze dei lavoratori e pensionati che affidano loro il proprio risparmio, e votano regolarmente in assemblea: vi è spazio per una responsabilità sociale dei gestori nell’esercizio del voto? Nella logica di Friedman, la risposta dovrebbe essere negativa ed è facile ipotizzare che oggi egli lancerebbe i propri strali contro quei gestori di fondi che cercano di dare di sé l’immagine (non sempre veritiera) di investitori socialmente responsabili che esigono dalle società in cui investono comportamenti analoghi. Anch’essi gestiscono soldi altrui e non dovrebbero arrogarsi il potere di fare scelte di tipo politico destinate a piacere ad alcuni dei loro beneficiari e non ad altri, concentrandosi invece sull’obiettivo di dare loro il massimo rendimento sui fondi investiti.  Diverso però è il caso dei prodotti di risparmio gestito espressamente commercializzati come socialmente responsabili o, come si dice oggi, “ESG” (Environment, Social & Governance). Questo caso è uguale a quello di una società per azioni costituita con scopo diverso da quello di lucro: i sottoscrittori stessi si aspettano che il fondo investa ed eserciti il voto in coerenza con gli impegni ESG assunti. Uno sviluppo interessante si avrebbe se mai i fondi ESG diventassero maggioranza nelle società per azioni; ma si tratta di un’ipotesi di là da venire. 

2. Nel suo complesso, l’etica del mondo degli affari è migliorata nel corso di questi cinquant’anni. Comportamenti all’epoca ampiamente diffusi e accettati oggi non lo sono più. Si pensi al sessismo sui luogo di lavoro, oggi meno pervasivo da ultimo grazie a #MeToo, o all’assai più diffusa accettazione della sostenibilità come vincolo alle nostre azioni. I margini per perseguire strategie di gestione profittevoli ma socialmente dannose parrebbero dunque inferiori che ai tempi di Friedman e la sua visione della società per azioni meno antisociale di allora. Inoltre, il danno reputazionale di condotte antisociali è oggi tale, grazie all’amplificazione che di simili comportamenti e delle reazioni dei consumatori possono dare i social media, da fungere esso stesso da freno più efficace di un tempo a comportamenti socialmente dannosi: comportarsi in modo eticamente corretto non è solo un vincolo esterno (così lo vedeva Friedman) ma vieppiù risponde all’interesse della società ad attrarre clienti, a fidelizzare i migliori dipendenti e così via. La sensibilità delle società statunitensi al tema del razzismo sistematico di queste settimane pare significativa da questo punto di vista.

3. L’articolo di Friedman è meno esplicito del mio riassunto circa il ruolo dei monopoli, da lui citati una sola volta e di sfuggita. Ma uno studio di prossima pubblicazione sulle carte di archivio di Friedman dello storico David Chan Smith mostra come la preoccupazione di Friedman nei confronti della responsabilità sociale dell’impresa fosse che essa potesse servire alle grandi società per azioni monopolistiche per giustificare il proprio potere di mercato: in effetti, in un mercato perfettamente concorrenziale, non vi è alcuno spazio per la responsabilità sociale. Solo se vi sono rendite monopolistiche, queste si possono usare per scopi sociali. Facendo il bene altrui, le grandi società per azioni avrebbero potuto giustificare verso la politica il proprio potere di mercato e rintuzzare i tentativi di attuare politiche antitrust più efficaci ovvero di aprire i mercati alla concorrenza internazionale. In tempi in cui le politiche antitrust stentano a “mordere”, il protezionismo ha un ritorno di fiamma e la struttura di molti mercati, in specie nel settore della tecnologia, è tale da premiare (e corroborare la posizione di) chi riesce ad acquisire una posizione dominante, i timori (inespressi) di Friedman si rivelano più che mai fondati. E’ anche vero, però, che sono proprio i monopolisti a potersi permettere comportamenti antisociali (si pensi ai social media) senza subire una riduzione dei profitti, per la mancanza di alternative. Ma ciò è un ulteriore argomento a favore di politiche antitrust severe nei loro confronti piuttosto che dell’idea che Facebook e compagnia dovrebbero farsi carico, più di quanto già sia interesse dei propri azionisti, del benessere della collettività.

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In conclusione, le considerazioni di Friedman restano attuali. Con un po’ di ottimismo, ho cercato di evidenziare come meccanismi sociali e di mercato premano oggi più di un tempo nella direzione di ridurre le frizioni tra interessi degli azionisti e benessere sociale. Se è vero che la responsabilità sociale della grande impresa monopolistica può servire anche a cementarne il potere di mercato, in tempi di mercati sempre più concentrati in settori chiave come quelli tecnologici, lo scetticismo di Friedman merita ancora attenzione. 

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Luca Enriques è professore di Corporate Law presso la University of Oxford 

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