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Il Recovery fund potrebbe rilanciare finalmente la Ricerca italiana

Giacinto della Cananea

Il fondo per la generazione futura va utilizzato in modo oculato, per finanziare investimenti nel capitale umano, oltre che nelle infrastrutture materiali. Tre priorità da cui partire

In attesa che il governo e il Parlamento impostino seriamente la discussione sul finanziamento della sanità pubblica, anche mediante il ricorso al Mes, vale la pena d’interrogarsi su come si possano utilizzare al meglio le altre risorse europee. Come Mario Draghi ha osservato nel discorso di Rimini, il fondo per la generazione futura, che arricchisce gli strumenti della politica europea, va utilizzato in modo oculato, per finanziare investimenti nel capitale umano, oltre che nelle infrastrutture materiali. Sono cruciali, in particolare, gli investimenti nella ricerca scientifica.

 

Una premessa è indispensabile: la ricerca italiana ha all’attivo una consistente mole di lavori scientifici, ma è affetta da due antiche tare. Che il nostro apporto alla ricerca sia tuttora rilevante è dimostrato dai dati del Cnr, secondo cui abbiamo contribuito alla produzione mondiale nella misura del 5 per cento nel biennio 2017-18. E’ un risultato di tutto rispetto, quasi insperato, per via d’una condizione di sottosviluppo quantitativo. Già nel 2008, la percentuale della spesa pubblica destinata alla ricerca era inferiore rispetto alla media europea. Dieci anni più tardi, essa si attestava all’1,4 per cento del pil rispetto a una media europea del 2 per cento. Ciò significa che l’Italia resta distante dagli altri paesi europei. L’altra tara riguarda la promozione dell’eccellenza nella ricerca. Basti pensare che, nel primo triennio del programma europeo Horizon, la Germania ha ricevuto più del 16 per cento dei finanziamenti, la Francia più del 10, la Spagna quasi altrettanto e l’Italia soltanto l’8,7 per cento. Anche in questo ambito, quindi, l’Italia è senz’altro un paese creditore, rispetto alle risorse conferite all’Ue. Lo è per proprie responsabilità, cioè per l’assenza d’incentivi agli studiosi non solo italiani, vincitori di bandi competitivi, a restare da noi o a tornarvi, per non dire degli ostacoli amministrativi e fiscali che si configurano come altrettanti disincentivi.

 

Sotto entrambi i punti di vista, il Recovery fund è una storica occasione di cambiamento. Lo è per l’ampiezza delle dotazioni finanziarie. Lo è, inoltre, perché il Consiglio europeo, nel ribadire l’orientamento all’eccellenza, ha mostrato consapevolezza della necessità di “continuare ad affrontare i divari in termini di partecipazione e di innovazione mediante varie misure e iniziative”. Ha fatto riferimento, a tal fine, al perfezionamento della cornice normativa, agli incentivi a favore dei “consorzi che contribuiscano a colmare tali divari”, a sinergie con le imprese. Sono iniziative che vanno nella giusta direzione. Ma vanno affiancate da tempestive misure a livello nazionale. Il governo Conte II ha segnato un’importante discontinuità rispetto al precedente, ripristinando il ministero dell’Università e della ricerca scientifica e mettendo alla sua guida un esperto, Gaetano Manfredi. Ha realizzato così le precondizioni per un auspicabile mutamento complessivo di strategia. Ma molto resta da fare.

 

Si possono, a tal fine, indicare tre priorità. La prima e più generale è che il sistema italiano della ricerca – anche nel confronto con quello di altri paesi dell’Europa – sia meno vincolato dal criterio della spesa storica, in modo da assumere flessibilità, per esempio per premiare progetti innovativi nel campo dell’ingegneria, della medicina, e delle scienze sociali anche in vista delle conseguenze del Covid-19. La seconda priorità è che sia rafforzata la sinergia tra i meccanismi di finanziamento nazionali ed europei. Altri paesi, per esempio, hanno già da tempo previsto che i progetti di ricerca ritenuti meritevoli di beneficiare dei fondi europei, ma non finanziati unicamente per limiti di bilancio, siano finanziati dai ministeri nazionali. E’ una prassi che ha dato ottimi risultati, alla quale potremmo utilmente allinearci. La terza priorità concerne l’informazione destinata non soltanto ai ricercatori, ma anche al personale amministrativo e tecnico. Per passare da un sistema ancora imperniato su una concezione fondamentalmente nazionale della ricerca a una diffusa consapevolezza dell’importanza che lo spazio europeo ha assunto a livello mondiale in questo settore occorrono consistenti e non occasionali investimenti nella formazione. Secondo alcune stime, per realizzare queste ultime due priorità, basterebbe una modestissima frazione (attorno allo 0,2 per cento) dei 209 miliardi di euro che potrebbero essere destinati all’Italia, purché le regole del gioco e le risorse siano stabili per qualche anno. Occorre dunque tornare a pensare al lungo periodo, come Draghi ha sottolineato. E’ davvero, dunque, un’occasione storica, per il potenziamento del nostro “capitale umano”. Nulla, però, garantisce che essa verrà colta, se i politici italiani – non solo nelle file della maggioranza – non faranno tutto ciò che è possibile e nei tempi brevi richiesti dalla difficile situazione in cui il paese versa.