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Editoriali

Ferrero in fondo è povero

Redazione

La classifica Forbes dei billionaire e il salto culturale che l’Italia deve imparare a fare

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Il Bloomberg Billionaires Index, la “classifica Forbes degli uomini più ricchi del mondo”, è un appuntamento annuale che i comuni mortali osservano con lo stesso incantato stupore con cui si segue la scia delle stelle cadenti la notte di san Lorenzo. Ecco i veri happy few. Classifica peraltro tutto sommato stabile, nell’èra digitale. Jeff Bezos di Amazon è sempre il più ricco di tutti (187 miliardi di dollari di patrimonio), poi Bill Gates, poi Mark Zuckerberg con 101,7 miliardi ed Elon Musk che sta scalando rapidamente posti in classifica. Il primo italiano, anche qui non è una novità, è Giovanni Ferrero, al 29esimo posto, con 32,8 miliardi, un abisso rispetto ai primi. E più lontano, 58esimo, Leonardo del Vecchio. Paolo Rocca del gruppo Techint è nel secondo centinaio con Silvio Berlusconi, Giorgio Armani nel terzo. Di solito, i comuni mortali si accontentano di fare i paragoni e trovare la propria bandierina nazionale. Ma c’è un altro modo altrettanto divertente per ragionare su questa graduatoria. Innanzitutto, che a parte Rocca e in parte Del Vecchio, gli altri Paperoni italiani vengono da una ricchezza industriale tradizionale (l’alimentare, la creatività), i più ricchi del mondo hanno inventato, o sfruttato pionieristicamente, le nuove tecnologie. E su questo l’Italia è indietro e sottodimensionata. Inoltre, gli italiani che sono riusciti a diventare super ricchi sono in realtà pochi, e certo non per colpa dell’incapacità degli altri. Ma è chiaro che per le nostre aziende il grande salto sarebbe sposare definitivamente la globalizzazione, la finanza internazionale. Invece la nostra ricchezza, anche quella più creativa, tende a rimanere nei confini o poco oltre, spesso addirittura nei parametri di famiglia e del talento individuale. Bernard Arnault, tanto per stare nel segmento lusso che ci è congeniale, è sesto con 79 miliardi. Un altro mondo. Forse incide anche la tendenza italiana ad accontentarsi di un sistema di rendita della ricchezza, dentro un capitalismo che resta sempre, bene o male, di relazione. E’ evidente che, al di là di tutte le difficoltà che l’Italia conosce, ci sia anche un salto culturale che l’intero paese deve fare, per non rimanere a guardare le poche stelle.

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Il Bloomberg Billionaires Index, la “classifica Forbes degli uomini più ricchi del mondo”, è un appuntamento annuale che i comuni mortali osservano con lo stesso incantato stupore con cui si segue la scia delle stelle cadenti la notte di san Lorenzo. Ecco i veri happy few. Classifica peraltro tutto sommato stabile, nell’èra digitale. Jeff Bezos di Amazon è sempre il più ricco di tutti (187 miliardi di dollari di patrimonio), poi Bill Gates, poi Mark Zuckerberg con 101,7 miliardi ed Elon Musk che sta scalando rapidamente posti in classifica. Il primo italiano, anche qui non è una novità, è Giovanni Ferrero, al 29esimo posto, con 32,8 miliardi, un abisso rispetto ai primi. E più lontano, 58esimo, Leonardo del Vecchio. Paolo Rocca del gruppo Techint è nel secondo centinaio con Silvio Berlusconi, Giorgio Armani nel terzo. Di solito, i comuni mortali si accontentano di fare i paragoni e trovare la propria bandierina nazionale. Ma c’è un altro modo altrettanto divertente per ragionare su questa graduatoria. Innanzitutto, che a parte Rocca e in parte Del Vecchio, gli altri Paperoni italiani vengono da una ricchezza industriale tradizionale (l’alimentare, la creatività), i più ricchi del mondo hanno inventato, o sfruttato pionieristicamente, le nuove tecnologie. E su questo l’Italia è indietro e sottodimensionata. Inoltre, gli italiani che sono riusciti a diventare super ricchi sono in realtà pochi, e certo non per colpa dell’incapacità degli altri. Ma è chiaro che per le nostre aziende il grande salto sarebbe sposare definitivamente la globalizzazione, la finanza internazionale. Invece la nostra ricchezza, anche quella più creativa, tende a rimanere nei confini o poco oltre, spesso addirittura nei parametri di famiglia e del talento individuale. Bernard Arnault, tanto per stare nel segmento lusso che ci è congeniale, è sesto con 79 miliardi. Un altro mondo. Forse incide anche la tendenza italiana ad accontentarsi di un sistema di rendita della ricchezza, dentro un capitalismo che resta sempre, bene o male, di relazione. E’ evidente che, al di là di tutte le difficoltà che l’Italia conosce, ci sia anche un salto culturale che l’intero paese deve fare, per non rimanere a guardare le poche stelle.

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