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Paletti per la rivoluzione della rete unica. Guida ragionata

Alfredo Macchiati

Il ruolo dello stato, la centralità delle autorità di controllo e tre soluzioni possibili per non perdere una grande occasione

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L’assetto delle telecomunicazioni è probabilmente l’altra grande questione “microeconomica” che il governo si troverà ad affrontare dopo quella di Autostrade. Ma a differenza di quest’ultima, dove non erano in gioco gli assetti industriali del settore, nelle telecomunicazioni si decide una parte rilevante della capacità competitiva del paese nei prossimi anni, considerato il ritardo che già ci affligge. Ritardo frutto di una combinazione micidiale di scelte imprenditoriali estrattive risalenti nel tempo e di decisioni politiche errate che hanno causato un enorme distruzione di valore indebolendo progressivamente quello che a metà degli anni novanta era un operatore di primario rilievo nello scenario internazionale.

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L’assetto delle telecomunicazioni è probabilmente l’altra grande questione “microeconomica” che il governo si troverà ad affrontare dopo quella di Autostrade. Ma a differenza di quest’ultima, dove non erano in gioco gli assetti industriali del settore, nelle telecomunicazioni si decide una parte rilevante della capacità competitiva del paese nei prossimi anni, considerato il ritardo che già ci affligge. Ritardo frutto di una combinazione micidiale di scelte imprenditoriali estrattive risalenti nel tempo e di decisioni politiche errate che hanno causato un enorme distruzione di valore indebolendo progressivamente quello che a metà degli anni novanta era un operatore di primario rilievo nello scenario internazionale.

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Il governo sembra premere per la rete unica (ma non è ancora chiaro se intende perseguire il ritorno al “monopolio integrato” piuttosto che il modello Bt con separazione) con il controllo di Cdp, il ridimensionamento dell’azionista estero. I ritardi del passato da colmare e gli investimenti che servono

Una rinascita del settore delle telecomunicazioni è quindi un tassello fondamentale della ripresa economica del paese. La questione, come noto, ruota intorno al rilevante fabbisogno degli investimenti, alla struttura del settore (concorrenza infrastrutturale sì o no) e alla governance (quale ruolo per lo stato e, di converso, per gli azionisti esteri). Visto che il veicolo del rinnovato intervento pubblico (Cdp) è azionista di entrambi gli operatori (TIM e Openfiber), qualsiasi operazione di modifica degli assetti azionari si configura, come si direbbe in gergo regolatorio, come “un’operazione con parti correlate”. In termini più correnti: Cdp si potrebbe trovare in conflitto d’interesse (cedente ed acquirente nello stesso tempo).

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A complicare ulteriormente il “TLC puzzle” concorre il fatto che un’eventuale fusione delle due reti, senza separazione dalle attività retail di Tim, cioè un ritorno al “monopolio integrato”, sarebbe sottoposta a uno scrutinio da parte delle autorità antitrust che, nel migliore dei casi, imporrebbero dei rimedi con la richiesta di disinvestire (cessione di pezzi di rete), verosimilmente nelle aree più dense e più redditizie. In questo senso la soluzione della fusione non sarebbe una soluzione. Senza contare che il fondamento economico del monopolio integrato resta tutto da dimostrare: ci sono casi di concorrenza infrastrutturale in Europa che si sono caratterizzati per crescita degli investimenti e vantaggi per i consumatori; in altri termini il modello di business di operatori wholesale only può funzionare ed è considerato attrattivo dagli investitori. Che poi un processo accelerato degli investimenti richieda un contesto dove il rilascio dei permessi non assorbe tempi biblici non è problema che si risolve riducendo il numero degli operatori.

 

Una seconda opzione è rappresentata dalla fusione tra le due reti cum separazione strutturale dalle attività retail; si tratta di un modello che può funzionare, come dimostra il caso di British Telecom. La separazione dovrebbe essere societaria (non necessariamente proprietaria), cda e brand separati, processo di decisione degli investimenti sotto l’esclusivo controllo della “società delle reti” (come appunto nel caso BT-Openreach). Qui i problemi potrebbero essere l’effetto sul valore di Tim che, apportando la rete ad una nuova società, potrebbe perdere di valore, e l’accollo dell’ingente debito che grava sulla società di Corso Italia. Tuttavia, il fatto che siano in corso in trattative con il fondo KKR per la cessione del 40 per cento della rete secondaria in rame sembra indicare che si tratta di problemi risolvibili. La separazione societaria, con le citate garanzie di terzietà, dovrebbe essere considerata una soluzione accettabile dalle autorità antitrust.

  

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Una terza soluzione infine è rappresentata dal modello del co-investimento: Tim e Open Fiber dovrebbero trovare un accordo per creare una nuova joint venture. Scopo del veicolo sarebbe quello di intraprendere i nuovi investimenti esclusivamente nelle aree “grigie”: si tratta di circa 12 milioni di abitazioni in gran parte coperte con rete ibrida in rame e fibra Fttc che dovrebbe essere convertita in reti in fibra con tecnologia Ftth. Resterebbe la competizione nelle aree densamente abitate (le cosiddette “nere”) mentre Open fiber, che si è aggiudicata i tre bandi Infratel, resterebbe il “monopolista” nelle aree bianche, a fallimento di mercato; Tim, con una joint venture che si limita a offrire accesso passivo, potrebbe conservare la sua attività wholesale. Questa soluzione consentirebbe di salvaguardare la concorrenza nelle aree più attrattive, ripartire il rischio degli investimenti e, nel contempo, di limitare, portare al minimo (in linea con quanto previsto dal codice europeo delle comunicazioni), l’imposizione dei rimedi previsti in presenza del “significativo potere di mercato”.

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La soluzione del coinvestimento, che appare la più promettente sotto il profilo degli assetti di mercato e degli investimenti, lascia tuttavia aperto il problema degli assetti azionari di Tim e del riequilibrio della sua struttura finanziaria sottocapitalizzata. Il governo sembra premere per la rete unica (ma non è ancora chiaro se intende perseguire il ritorno al “monopolio integrato” piuttosto che il modello BT con separazione) con il controllo di Cdp, il ridimensionamento dell’azionista estero e un eventuale ruolo dell’azionista Enel che resta da identificare. In ogni caso, la soluzione della rete unica cum separazione societaria richiede una regolazione efficace, verosimilmente non leggera e un regolatore autorevole per far sì che l’operazione non generi discriminazioni tra gli operatori di TLC richiedenti accesso alla rete e produca benefici anche per i consumatori. E’ una tessera importante del “TLC puzzle” che non dovrebbe essere trascurata dal decisore politico.

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