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I giusti paletti di uno stato imprenditore

Redazione

Lo stato azionista funziona se si comporta come in Volkswagen e in Renault

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Il chiacchiericcio politico sulle autostrade ha toni surreali. Il centrodestra lamenta che l’uso estensivo della Cassa depositi e prestiti “mette a rischio il risparmio postale degli italiani sul quale la Cdp poggia”. In realtà di per sé non mette a rischio nulla se l’investimento in un’azienda titolare di una concessione, per quanto ribassata, rende più, per dire, dei Btp sui quali Lega e Fdi vorrebbero convogliare quello stesso risparmio per scansare i fondi europei. Ma il vero problema è che nessuno, a destra e sinistra, si preoccupa di ciò che dovrebbe essere il nocciolo della faccenda: il mercato.

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Il chiacchiericcio politico sulle autostrade ha toni surreali. Il centrodestra lamenta che l’uso estensivo della Cassa depositi e prestiti “mette a rischio il risparmio postale degli italiani sul quale la Cdp poggia”. In realtà di per sé non mette a rischio nulla se l’investimento in un’azienda titolare di una concessione, per quanto ribassata, rende più, per dire, dei Btp sui quali Lega e Fdi vorrebbero convogliare quello stesso risparmio per scansare i fondi europei. Ma il vero problema è che nessuno, a destra e sinistra, si preoccupa di ciò che dovrebbe essere il nocciolo della faccenda: il mercato.

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Lo stato azionista esiste in tutto il mondo, tranne gli Usa dove agì solo come rimedio rooseveltiano alla Grande depressione. La questione è se lo stato azionista funziona o si comporta meramente da stato padrone.

 

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In Germania sono pubbliche molte aziende: la Volkswagen ha per azionista al 20 per cento il land della Bassa Sassonia, con golden share sul management. Ma pur tra alti, bassi e scandali nessuno può negare che Vw operi in concorrenza e sul mercato. Stessa cosa in Francia per Renault, dove il Tesoro ha il 15 per cento e interferisce assai (Emmanuel Macron fece saltare l’alleanza con Fca, passata poi a Peugeot, dove c’è sempre la presenza pubblica ma con meno poteri): tuttavia le Twingo non godono di sconti rispetto alle rivali.

 

Francia e Germania, assieme alla Spagna, danno invece prova di cattivo stato azionista in Airbus, rivale di Boeing per gli aerei civili. I prodotti sono buoni ma le accuse di aiuti di stato mosse dagli Usa sono state riconosciute fondate dalla Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Inoltre la gestione guarda più al sindacato che ai risultati: stessi dipendenti di Boeing per un fatturato minore di un quarto.

 

Anche l’Italia ha la propria azienda aeronautica statale, nel gruppo Leonardo, il che ha senso operando per la difesa. Mentre dall’auto lo stato è fortunatamente uscito nel 1986 quando l’Alfa Romeo fu venduta alla Fiat. L’Alfa è un classico esempio di errori da non ripetere: alle sportive che spopolavano nel mondo venne affiancata l’Alfasud, buon motore con carrozzeria rugginosa, imposta dalla politica.

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Proprio gli anni Ottanta ci portano agli orrori di un’era, quella delle partecipazioni statali, che pure ha avuto le sue glorie. La mano pubblica si estese dalle quattro ruote alla siderurgia, alle banche, alla pasticceria, alle conserve, alle piantagioni di cocomeri (Maccarese, poi ceduta proprio ai Benetton). E naturalmente all’intrattenimento televisivo, roba un po’ diversa dal servizio pubblico, cioè la Rai, la maggiore tv di stato del mondo che nessuno intende privatizzare.

 

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Ecco: quando si parla di Iri si tirano in ballo le eccellenze tecnologiche, la teleselezione automatica e le sim card della Sip. Vero, così come non si discutono i buoni esempi di Leonardo, Fincantieri, Enel, Eni, delle Fs risanate: gruppi che competono con successo a livello mondiale. Però bisognerebbe anche ricordare che per una linea telefonica fissa occorrevano mesi e qualche raccomandazione, che la telefonia mobile era la più cara del mondo. E degli sprechi, dell’Italsider di Bagnoli ampliata a dismisura in una delle spiagge più belle del Mediterraneo e poi smantellata, o di quella di Taranto già quarant’anni fa giudicata irrecuperabile da delegazioni giapponesi, ceduta ai Riva, agli indiani e ora ristatalizzata. O dei bilanci Alitalia, costellati da perdite.

 

Eppure erano aziende che operavano in regime di monopolio, come Sip e Alitalia, la cui tratta Roma-Milano fu la più cara del mondo in rapporto alla lunghezza. Le privatizzazioni dei governi Ciampi e Amato, gestite da Mario Draghi che era direttore del Tesoro, non servirono a fare cassa e svendere i beni nazionali, come piace alla retorica populista. Servirono a non soccombere, a non far saltare per aria il bilancio pubblico, a entrare nell’euro. I manager pubblici potentissimi grazie al monopolio fecero le valige con mega-liquidazioni.

 

Ciò che è rimasto dello stato si è attrezzato alla globalizzazione, e lo ha fatto bene: come le Fs, le Poste, i cantieri. Il segreto? Manager presi sul mercato. Il risanatore delle poste fu Corrado Passera, già a capo del gruppo De Benedetti e poi ad di Cariplo-Intesa. La rinascita delle Fs iniziò con Elio Catania, ex Ibm, e si è consolidata con Mario Moretti, Renato Mazzoncini, Gianfranco Battisti.

 

Ora che le autostrade tornano pubbliche molti rimpiangono l’era Italstat. Attività in tutto il mondo, dighe e aeroporti, e bilanci in rosso. E 20 anni per studiare la variante di valico Firenze-Bologna, realizzata in dieci anni in era Benetton.

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