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Oltre Benetton. Storie e peripezie da un paradosso

Stefano Cingolani

La via italiana alle privatizzazioni, dove la mano invisibile viene sempre mozzata via

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Il ramo italiano viene tagliato, ma la pianta resta bella grande. Su questo gli analisti finanziari sono concordi e il balzo delle azioni in Borsa conferma il loro giudizio. Nell’immediato l’accordo sembra gravoso per lo stato italiano e può essere un sollievo per gli azionisti, tuttavia molte domande rimangono senza risposta. Atlantia, nomen omen, porta sulle spalle non tutto, ma buona parte del mondo Benetton; è un colosso da 12 miliardi di euro se si consolida la spagnola Abertis della quale dal 2018 controlla il 50% più una azione (il resto è nelle mani di Florentino Pérez il costruttore proprietario del Real Madrid), anche se l’integrazione non è ancora avvenuta.

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Il ramo italiano viene tagliato, ma la pianta resta bella grande. Su questo gli analisti finanziari sono concordi e il balzo delle azioni in Borsa conferma il loro giudizio. Nell’immediato l’accordo sembra gravoso per lo stato italiano e può essere un sollievo per gli azionisti, tuttavia molte domande rimangono senza risposta. Atlantia, nomen omen, porta sulle spalle non tutto, ma buona parte del mondo Benetton; è un colosso da 12 miliardi di euro se si consolida la spagnola Abertis della quale dal 2018 controlla il 50% più una azione (il resto è nelle mani di Florentino Pérez il costruttore proprietario del Real Madrid), anche se l’integrazione non è ancora avvenuta.

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L’acquisto è stato oneroso (16,520 miliardi di euro più 2,4 miliardi per il 23,86% del gruppo tedesco Hochthief a sua volta azionista di Abertis, che fa sempre capo a Pérez) e ha pesato per circa 9 miliardi di euro, scrive R&S Mediobanca, sull’indebitamento della società che i Benetton controllano con la loro holding Sintonia al 30,25% (l’8% è del fondo sovrano di Singapore, il 5% della Fondazione Cassa di risparmio di Torino, un altro 5% della banca d’affari francese Lazard e via via banche fondi e azionisti privati). Con un fatturato di circa 7 miliardi di euro e 30 mila dipendenti, Atlantia gestisce 3.225 chilometri di autostrade italiane (il 54% della rete nazionale) e 10.602 chilometri all’estero (4.954 in Brasile, 2.036 in Francia, 1.777 in Spagna, 1.087 in Cile e poi India, Argentina, Porto Rico, Colombia, Regno Unito e Polonia).

 

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E’ la principale attività del gruppo Benetton, seguita dalla ristorazione (soprattutto Autogrill) mentre l’originario mestiere, il tessile e abbigliamento, è rimasto a circa 1,3 miliardi di euro. Atlantia senza Aspi diventa più internazionale, ma più piccola e meno appetibile; il rischio è che si inneschi una reazione a catena, a cominciare dalla Spagna.

 

Il crollo del ponte Morandi non ha arrestato l’acquisizione di Abertis. Ma all’inizio di quest’anno, a mano a mano che si alzava la polvere sulla revoca della concessione, si sono diffuse in Borsa voci che Florentino Pérez ci stesse ripensando. A metà febbraio l’imprenditore madrileno ha dichiarato di “non aver nessun interesse a cambiare gli accordi azionari”. Da allora in poi c’è stata la pandemia e adesso arriva il colpo d’ascia del governo italiano; abbastanza per riaccendere dubbi e interrogativi. Uno dei quali è quanto vale Aspi. Secondo alcune stime s’aggira sui 12 miliardi di euro. A questa cifra si arriva calcolando quanto Allianz, entrata nel 2017 insieme al fondo cinese Silk Road, ha svalutato la propria partecipazione del 6,94% nel dicembre scorso. Per far scendere dall’88% al 10% i Benetton occorre trovare, dunque, oltre 9 miliardi di euro. Troppo.

 

Secondo gli analisti di banca Imi per i quali Aspi oggi, così come è ridotta, non supera i 5 miliardi di euro. Troppo poco. Cdp & Friends (le solite Poste che a loro volta alimentano la Cassa depositi e prestiti con la raccolta tra piccoli risparmiatori, più il fondo F2i) dovrebbero salire al 51%, Atlantia scendere al 37%, diluendo Sintonia a circa il 12% in modo da non avere nemmeno un consigliere. I coriandoli a fondi, banche e privati. 

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Autostrade “torna a casa”? L’87% della società venne ceduto nel 1999 dall’Iri con una offerta pubblica che ha fruttato al Tesoro 8 mila e 105 miliardi di lire, mentre il 30%, è passato con trattativa diretta per 4.911 miliardi; il tutto equivale a 6,7 miliardi di euro. Fu “una svendita” ripetono gli statalisti, ma attenti che la vera svendita non avvenga adesso.

 

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I Benetton accusano il colpo anche se rimangono al comando di una galassia da almeno dieci miliardi di euro. Dopo la morte dei fratelli Gilberto e Carlo, nel 2018, non è emerso nessun esperto timoniere ed è stato richiamato Gianni Mion artefice della metamorfosi dagli anni 90. Si dovrà trovare, dunque, un nuovo assetto della proprietà e in parte una nuova strategia, riflettendo sulla sconfitta determinata da molteplici elementi: ideologia, odi personali e politici, ma anche la freddezza con la quale la famiglia reagì alla tragedia. Tuttavia ha pesato la distanza culturale da Roma e dalle sue logiche, contraddizione palese per chiunque gestisca una concessione e debba trattare con i governi le condizioni del patto, a cominciare dalle tariffe.

 

È il paradosso della via italiana alle privatizzazioni: chi ha creduto di prendere le società dalla mano pubblica e guidarle con la mano invisibile del mercato, è stato regolarmente smentito.

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