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Un mondo da rifare

Stefano Cingolani

La pandemia ha abbattuto il sogno delle “magnifiche sorti e progressive”. Che ne sarà dei dazi e della globalizzazione, delle fabbriche e dello smart working? Sullo sfondo una nuova Guerra fredda

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“Armonia e comprensione, solidarietà e fiducia in abbondanza; non più falsità e derisioni, ma vita dorata, visioni da sogno, rivelazioni mistiche dei cristalli. E la mente finalmente liberata”.

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“Armonia e comprensione, solidarietà e fiducia in abbondanza; non più falsità e derisioni, ma vita dorata, visioni da sogno, rivelazioni mistiche dei cristalli. E la mente finalmente liberata”.

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James Rado, Gerome Ragni, “Aquarius”, 1967

  

Secondo alcuni, il lockdown è stato un incubo e nello stesso tempo un risveglio dal grande sogno delle “magnifiche sorti e progressive”

L’èra di Narciso comincia con l’età dell’Acquario. E’ nell’acqua che il giovinetto si rispecchia e ammira e stesso. Il semidio, bello e compiaciuto, regna per mezzo secolo finché cede lo scettro a un essere minuscolo quanto potente, un microscopico veleno. L’èra di Narciso ha portato la libertà al posto dell’oppressione, la democrazia invece del totalitarismo, la pace e non la guerra totale, il progresso non la stagnazione, più ricchezza e meno povertà nel mondo. Ma ha dilatato fino all’estremo l’ego e il culto del successo. Guai a chi resta indietro. E gli sconfitti, gli abbandonati, i “dannati della terra” hanno cercato la loro rivalsa, lasciando il mondo in mano al virus. L’estetica dell’io ci ha condotti in “un universo muto”, come lo chiama Charles Taylor, “un mondo appiattito, in cui non c’è nessuna scelta significativa da compiere per la semplice ragione che non c’è nessuna questione cruciale… L’auto-realizzazione è il principale valore della vita”, scrive il filosofo canadese ne “Il disagio della modernità”. Il mortifero diavoletto, invece, ci ripropone proprio le questioni cruciali: la morte innanzitutto, la salvezza mia e quella degli altri, la libertà e la coercizione, le basi stesse della società civile; ci impone di ripensare il mondo in cui siamo vissuti.

   

Secondo alcuni, il lockdown è stato un incubo e nello stesso tempo un risveglio dal grande sogno delle “magnifiche sorti e progressive”. Eppure, citare soltanto il famoso verso di Giacomo Leopardi significa dimenticare che “La Ginestra”, il più profondo e dolente dei suoi poemi, è un severo e disincantato inno al solidarismo umano: l’ardua risposta alla natura matrigna e “al mal che ci è dato in sorte” viene dall’animo nobile che “a sollevar s’ardisce / agli occhi mortali incontra / al comun fato”, e “tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune”. Chi pratica l’ottimismo della volontà ritiene che questo nostro e presente “comun fato”, spinga a risolvere in senso cooperativo il dilemma dell’individuo: solo collaborando si riesce ad evitare la rovina propria e di tutti gli altri. Allora dove la mettiamo la movida? La costrizione imposta dall’alto ha fatto regredire la pandemia, non c’è da fidarsi dell’autocontrollo: a Trastevere o sui Navigli la mia libertà non finisce quando comincia la vostra. Chi prevarrà lo vedremo non in seguito a dispute della ragion pura, ma con gli impuri sviluppi della storia.

 

Il “capitalismo politico” ha perso la sua spinta propulsiva e gli autocrati imitatori non stanno molto bene nemmeno loro

Tante certezze, tanti pilastri stanno vacillando e lasciano spazio a nuovi edifici, si spera altrettanto se non più resistenti. Dicono che entriamo nella nuova guerra fredda con quattro potenze al posto di due: gli Stati Uniti e la Cina, l’Unione europea e la Russia, avversari e alleati secondo geometrie sempre più variabili. E’ così? Si racconta che il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana, una statua in legno raffigurante la first lady è stata incendiata alle porte di Sevnica, la cittadina slovena dove Melania Knavs coniugata Trump è nata 50 anni fa. Un episodio minore, una bravata di provincia, eppure è un gesto rivelatore: in altri momenti si bruciava per protesta la bandiera a stelle e strisce, battendosi con la polizia; oggi uno sberleffo è sufficiente. Un economista che va per la maggiore, Branko Milanović, all’inizio dell’anno, quando ancora la pandemia non era esplosa, in un lungo articolo su Foreign Affairs (il numero era dedicato guarda un po’ al futuro del capitalismo) aveva ribadito la sua visione: al capitalismo non ci sono alternative, tuttavia è in corso un conflitto non solo economico, ma culturale nel senso più ampio, tra il “capitalismo politico” e il “capitalismo meritocratico”; il primo ha il suo campione nella Cina, il secondo negli Stati Uniti.

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In Cina è nato e si è diffuso il Sars-Cov-2, ma non solo: il regime di Pechino ha negato finché ha potuto; il presidente Xi Jinping per mesi non ha saputo che dire né che fare; il Partito comunista ha represso gli oppositori, però non ha soppresso l’epidemia diventata pandemia; ancor oggi non sappiamo cosa è successo davvero, come e perché, mentre è diventata popolare l’idea che il virus, studiato e maneggiato come potenziale arma di distruzione di massa, fosse “scappato” dal laboratorio di Wuhan per caso o, secondo il complottismo catastrofista, per scelta. L’impatto della crisi è pesante anche sulla Cina il cui prodotto crescerà quest’anno (forse) del 3 per cento, metà rispetto al vecchio obiettivo politico del governo il quale a questo punto rinuncia a indicare numeri precisi. La Via della seta viene percepita come l’autostrada della pandemia. Il grande progetto ha perso ogni appeal e non sappiamo nemmeno se, come, con quali tempi e quali denari verrà rilanciato. Il “capitalismo politico”, insomma, ha perso la sua spinta propulsiva e gli autocrati imitatori non stanno molto bene nemmeno loro. Lo stesso può dirsi del “capitalismo meritocratico”? Il giudizio è più complesso perché oggi gli Stati Uniti sono guidati da una variante nazional-populista che interpreta la meritocrazia non come il premio al più bravo, ma come l’arroganza del più forte. Per scoprirsi poi debole, incerto, confuso come The Donald che rifiuta di indossare la mascherina per infantile vanità e lascia diffondere l’epidemia per insipienza. Gli Stati Uniti campioni mondiali del Covid-19 difficilmente possono essere portati ad esempio da seguire; l’esperienza, il rude linguaggio dei fatti fa premio sulle categorie filosofiche o le elucubrazioni dei politologi e degli economisti. Quanto agli altri leader che vedono in Trump il loro paladino, c’è poco da dire, basta citare un paio di loro: Boris Johnson che tra tutti è il più intelligente e Jair Bolsonaro che tra gli altri è il più scarso. La boria li ha portati all’ospedale trascinando i loro paesi in una crisi sanitaria ed economica ancora lontana dalla fine.

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Le grandi potenze, insomma, si rivelano piccine e impotenti. Ciò vale anche per l’Unione europea? Intanto non ha mai agito per diventare davvero una grande potenza a tutto campo e questo si rivela un male. Ha risposto alla pandemia in ordine sparso, poi ha messo in campo misure consistenti, per impantanarsi di nuovo in dispute medievali tra prodighi e frugali. Siamo a luglio e ancora non è chiaro a quanto ammonta il fondo per la ripresa che vedrà la luce solo l’anno prossimo. Troppo poco e troppo tardi? Incapace di muoversi in sintonia non può svolgere nel mondo il ruolo che la sua ricchezza economica le consentirebbe. Per la Ue vale il motto che si usava un tempo per la Germania: un gigante economico e un nano politico. Altro che G2, G3, G7, G20, siamo in un mondo GZero. L’illusione dell’uomo solo al comando non ha lasciato nessuno al timone. Arrivati al limite inferiore della curva, è il momento di ripartire, magari su basi nuove. Aspettiamo le elezioni americane?

 

Tutte queste contraddizioni si riflettono nella moneta, che non è solo un mezzo di pagamento, ma “barometro di movimenti profondi e causa di non meno formidabili conversioni delle masse”, come scriveva Marc Bloch nella sua storia monetaria d’Europa rimasta allo stato di un abbozzo perché i nazisti lo uccisero nel 1940. Il dollaro resta dominante, eppure fluttua nell’aria senza direzione. Un tempo andava dai paesi ricchi a quelli poveri per poi tornare, magari moltiplicato, dal suo emittente. Oggi si sposta un po’ qua un po’ là, un biglietto verde ed errabondo, senza che nessun altro prenda il suo posto. L’euro, certo, ha soppiantato da tempo la sterlina, ma non è diventato una moneta mondiale. Lo yuan cinese insidia lo yen giapponese, però non ha nessuna forza egemonica.

 

E la globalizzazione che ha proiettato nel mondo delle merci e del capitale lo spirito di Narciso? Non tornerà indietro, anche se sarà più lenta, più locale, più cauta, meno espansiva. Nemmeno Trump può immaginare che a Wall Street vengano contrattati solo titoli a stelle e strisce o che internet diventi una rete chiusa e nazionale, che Amazon non venda in Europa o in Asia, che i social media tornino a parlare a quattro amici al bar. E’ buon senso non teoria economica. La globalizzazione, però, è stata un progetto politico e culturale, la proposta dell’America al mondo dopo la vittoria sul comunismo sovietico. Questa dimensione oggi non esiste più, così ci resta una economia globale, più o meno aperta, senza respiro e senza direzione. La polemica sui dazi, dunque, perde qualsiasi senso. La temuta guerra commerciale si sfalda, diventa guerriglia, anzi ripicca, rivalsa, ricatto. In attesa che arrivi una nuova proposta.

 

La globalizzazione è stata un progetto politico e culturale. Questa dimensione oggi non esiste più, così ci resta un’economia globale

In questo orizzonte nebuloso il cambiamento più chiaro riguarda il lavoro. E siccome il lavoro è il cuore di ogni rivoluzione economica e soprattutto della rivoluzione industriale, allora possiamo davvero individuare qui i germi di una grande trasformazione. Lo smart working esploso durante la pandemia, ha un grande potenziale pratico e teorico. Può diventare, infatti, la via per ricomporre il legame tra tempo di vita e tempo di lavoro, che il macchinismo ha spezzato fin dalla prima rivoluzione industriale per poi venire maciullato dalla grande fabbrica, dal fordismo, dalla catena di montaggio, fino alla robotizzazione che ha espulso tanto lavoro manuale senza offrire alternative. Le tecnologie digitali aprono la strada a un nuovo modo di lavorare dentro e, forse ancor più, fuori dall’ufficio, mentre macchine spesso piccole, a dimensione di laboratorio, consentono ormai di stampare strutture complesse e sofisticate. Si chiude così il secolo dominato dalla “fabbrica caserma” come era stata chiamata. Il nuovo lavoro è smart, agile, intelligente non solo perché si svolge da remoto, ma perché introduce una diversa relazione con l’intera organizzazione, dal capo ai colleghi, non più verticale, ma orizzontale, basata sulla partecipazione, sulla collaborazione, sulla comprensione sia degli obiettivi comuni sia delle capacità di ciascuno.

 

L’era del Narciso ha prodotto il rifiuto del lavoro. Per filosofi agitatori come Toni Negri è il culmine del capitalismo e la sua suprema condanna. Altro che il motto “chi lavora non mangia” dei socialisti, altro che la “dittatura del proletariato” dei comunisti: niente lavoro, niente capitale, niente più classe operaia, solo “moltitudine e Impero”. L’utopia negativa degli anni ’70 è stata introiettata in chiave edonistica per diventare comportamento soggettivo attraversando le generazioni fino alla variante contemporanea: il reddito universale senza alcun rapporto con il lavoro eseguito, non più a ciascuno secondo i propri bisogni, ma secondo i propri desideri. Il lavoro ha perso valore, sia etico sia sociale, ovunque, anche se in modo meno drastico nei paesi luterani, calvinisti o anche giansenisti. L’Italia ha aderito a questa visione del mondo con due misure fallimentari: il cosiddetto reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni. Il primo non ha prodotto occupazione (ma questo non era il suo vero obiettivo come ormai tutti hanno capito), il secondo ha mandato in pensione anticipata soprattutto i dipendenti pubblici così che oggi ci sono più statali pensionati che in ufficio. La sanità è stata la prima ad alzare bandiera bianca cominciando a richiamare personale in quiescenza prima ancora che scoppiasse il Covid-19. La pandemia ha colto la società occidentale, e l’Italia in modo particolare, in mezzo a questa palude dove i miasmi del presente soffocano il respiro del futuro. E ha operato una rottura accelerando processi che già erano cominciati negli anni precedenti.

 

Le stelle non ci aiutano a capire chi, dopo Narciso e dopo il demone virale, s’affaccerà allo spuntar del sole. Un mostro o un eroe positivo?

Se aguzziamo lo sguardo, se ci immergiamo nel flusso del reale, se auscultiamo l’economia e la società mettendo gli orecchi a terra, possiamo percepire le vibrazioni di un nuovo sviluppo basato su alcuni ingredienti già esistenti, combinati in modo diverso. L’impresa dovrà strutturarsi secondo obiettivi che tengano conto di valori, domande, esigenze, bisogni in parte diversi da quelli del passato. Il suo scopo ultimo resta creare ricchezza e per questo il processo produttivo, nella manifattura come nei servizi, deve produrre un sovrappiù, un profitto. Ma non lo farà come nella Manchester del ’700 né come nella Detroit del ’900. Tra i bisogni di questo secolo c’è senza dubbio il rapporto diverso con l’ambiente circostante, quello sociale e quello naturale che per lo più si intrecciano in modo inestricabile. Digitale, responsabile, verde, sono i tratti di un nuovo paradigma in progress. Può diventare un modello destinato a dare nuove fattezze al capitalismo, l’unico “modo di produzione” in continuo cambiamento. Può fallire soprattutto per motivi politici, perché prevarrà la conflittualità permanente, il caos molecolare, il rifiuto di costruire un nuovo ordine su scala nazionale e mondiale. La storia non ha nessun fine predeterminato.

 

Secondo Yogi Bhajan l’età dell’Acquario deve ancora arrivare, non è cominciata il 2 febbraio 1962 quando la Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno si trovavano perfettamente allineati in quella costellazione, come sostenevano gli autori di Hair, il famoso musical. A questo punto la confusione si fa completa. Le stelle non ci aiutano a capire chi, dopo Narciso e dopo il demone virale, s’affaccerà allo spuntar del sole. Se apparisse un mostro, sarebbe Uroboro, il serpente che si morde la coda. E se fosse un eroe positivo? Magari Ulisse, cauto, modesto, forte in battaglia, ma non nato per la guerra come Achille o come Aiace, fermo nei valori e nelle convinzioni, leale anche se non vittima dell’amor di patria come lo sventurato Ettore, abile nel realizzare i suoi propositi e a difendersi dalle insidie con buona dose di astuzia; Ulisse che non volle rinunciare né alla virtù né alla conoscenza. Basta così. Ci vorrebbe un poeta o un narratore il quale, abbandonando la circumnavigazione del proprio ombelico, immaginasse l’odissea del nuovo secolo.

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