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La concorrenza fiscale e il senso della cittadinanza europea

Andrea Giovanardi*

Che cosa non ha capito Milena Gabanelli della normativa comunitaria e dei princìpi alla base dell’Unione europea

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Secondo Domenico Affinito e Milena Gabanelli - nell'articolo “Tasse, ecco come sei paesi europei sottraggono all'Italia 6,5 miliardi di euro” (Corriere della Sera, 1° luglio 2020) - la politica fiscale di Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta consentirebbe alle multinazionali italiane di trasferire le sedi in quei paesi usufruendo di grandi vantaggi fiscali. Le imprese che di questi benefici godono lo fanno nel migliore dei casi aggirando la legge, nel peggiore violandola apertamente. Andrebbero quindi registrate tanto la slealtà degli stati, che contravverrebbero al “principio di solidarietà tra i membri dell'Unione previsto dai trattati”, quanto la scorrettezza dei singoli operatori che, cogliendo le opportunità di sistema, andrebbero qualificati per quello che sono, degli elusori e/o degli evasori (i termini elusione ed evasione sono utilizzati come sinonimi). Tutti ladri, insomma; gli stati, perché “rubano” le imposte agli altri stati, e le imprese, perché si avvantaggiano del “furto” altrui.

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Secondo Domenico Affinito e Milena Gabanelli - nell'articolo “Tasse, ecco come sei paesi europei sottraggono all'Italia 6,5 miliardi di euro” (Corriere della Sera, 1° luglio 2020) - la politica fiscale di Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta consentirebbe alle multinazionali italiane di trasferire le sedi in quei paesi usufruendo di grandi vantaggi fiscali. Le imprese che di questi benefici godono lo fanno nel migliore dei casi aggirando la legge, nel peggiore violandola apertamente. Andrebbero quindi registrate tanto la slealtà degli stati, che contravverrebbero al “principio di solidarietà tra i membri dell'Unione previsto dai trattati”, quanto la scorrettezza dei singoli operatori che, cogliendo le opportunità di sistema, andrebbero qualificati per quello che sono, degli elusori e/o degli evasori (i termini elusione ed evasione sono utilizzati come sinonimi). Tutti ladri, insomma; gli stati, perché “rubano” le imposte agli altri stati, e le imprese, perché si avvantaggiano del “furto” altrui.

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Accade poi che alcune delle aziende citate nel pezzo vengano “messe nel mucchio” senza aver usufruito di alcun vantaggio connesso all'asserita elusione/evasione internazionale. Il caso più eclatante è quello di Ferrari, che, pur avendo la sede fiscale in Italia, gode di un regime agevolato, grazie al cosiddetto patent box. Si tratta tuttavia di un vantaggio riconosciuto dalla normativa nazionale, sicché non si capisce il motivo per cui è stata menzionata la nota impresa automobilistica italiana.

Nulla si dice poi della circostanza che anche l'Italia ha fatto ricorso a norme volte ad attirare non residenti sul proprio territorio: basti pensare a quella, decisiva nella trattativa che ha portato il calciatore Cristiano Ronaldo alla Juventus, sui non residenti che si trasferiscono in Italia e che, per questo, vengono tassati su tutti i redditi prodotti all'estero, quale ne sia la consistenza, nella misura di 100 mila euro; alle disposizioni volte a favorire il rientro dei lavoratori che siano stati almeno due anni all'estero (l'agevolazione per il “rientro dei cervelli”); alla disposizione che tassa al 7 per cento i pensionati stranieri che si trasferiscono nel sud del paese. Perché non dire che in questi casi è l'Italia a sottrarre gettito agli altri paesi europei? Siamo sleali anche noi o no?

 

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Ma, al di là dei silenzi e degli svarioni (clamorosi quelli sulla direttiva madre-figlia che consentirebbe l'evasione di chi paga le imposte in Italia e distribuisce dividendi in Lussemburgo o in Olanda o sul transfer pricing come strumento per pagare meno tasse), quel che sfugge ai due giornalisti è la logica dei rapporti tra l'ordinamento nazionale e quello europeo. Il fine primario della normativa unionale è infatti quello di garantire il funzionamento del mercato interno: si tratta di uno spazio unico che non conosce dogane e all'interno del quale deve essere garantita la possibilità di esercitare un'attività economica senza essere discriminati perché si appartenga all'uno o all'altro degli stati membri (è la cosiddetta libertà di stabilimento). L'intervento volto a uniformare le singole legislazioni è ammesso quindi solo se è teso a rimuovere un ostacolo al corretto funzionamento del mercato.

 

In questa prospettiva, l'intervento europeo si è concentrato sulle imposte che gravano sugli scambi (dazi, Iva, accise) e, per l'imposizione diretta, negli ambiti della distribuzione degli utili, delle riorganizzazioni societarie e degli interessi e royalties. Certo, si potrebbe sostenere che anche l'assenza di armonizzazione della base imponibile delle imposte sulla società crei ostacoli al funzionamento del mercato, tanto che, dal 2001, la Commissione europea sta cercando di portare avanti una direttiva finalizzata all'anzidetta armonizzazione. Allo stesso modo, è chiaro che l'economia digitale, per la regola del diritto tributario internazionale in forza della quale si tassa laddove si ravvisa la presenza fisica di un'impresa, pone evidenti problemi di concorrenza: di qui i tentativi a livello Ocse e a livello europeo di introdurre dei correttivi. Infine, è ovvio che gli interpelli debbono essere considerati alla luce della normativa europea sul divieto di aiuti di stato.

 

Affinito e Gabanelli, invece, attaccano i sei presunti paradisi fiscali in ragione delle più contenute aliquote dell'imposta sulla società, dimenticando che l'intervento in tale ambito non ostacola il funzionamento del mercato. Non è impedito a un'impresa di trasferirsi in altro paese per usufruirne: anzi, è questa l'essenza stessa della costruzione europea, che mette al centro non gli stati, ma le persone e le imprese, che devono poter al meglio esplicare le loro potenzialità all'interno di un grande mercato.

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In quest'ottica non vanno dimenticati gli effetti positivi della concorrenza fiscale tra gli stati: fino al 2002 l'aliquota dell'imposta sulle società italiana era pari al 36 per cento, oggi si attesta al 24 per cento, non certo per la lungimiranza dei nostri governanti, ma piuttosto in forza del fatto che altri stati hanno adottato una politica volta al contenimento del peso dell'imposta su chi produce ricchezza.

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Ma i due articolisti, a me pare, vorrebbero qualcos'altro. Lo si desume dall'affermazione secondo la quale “la soluzione più corretta è quella di una tassazione comune sul reddito”: un superstato europeo, che dovrebbe porre fine alle autonome scelte dei singoli stati. La competizione tra territori è, in questa prospettiva (quella secondo la quale il “fisco giusto” sarebbe il nostro), il male assoluto perché consente a chi non è schiacciato da pesanti debiti pubblici (per merito suo) di prevalere sugli altri. Dimenticano, però, i due autori che se si arrivasse a un super stato unitario e accentratore: i) occorrerebbe anche che quest'ultimo decida sulle spese dei singoli stati; ii) verrebbe meno l'unica concreta possibilità che i cittadini hanno per far valere il loro dissenso, quella di “votare con i piedi” andando a spendere i propri talenti in una parte dell'Europa che sappia valorizzare meglio l'impegno, le competenze e le abilità di ognuno.

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Non è in fondo questo il senso della cittadinanza europea?

   

*professore ordinario di Diritto tributario, Università degli studi di Trento

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