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Gli abbagli legali e fiscali di chi protesta contro il prestito a Fca

Dario Stevanato

Le pulsioni demagogiche e sovraniste dietro alle polemiche sulla sede legale all’estero e sulla presunta erosione fiscale

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La richiesta di un prestito per 6,3 miliardi di euro che Fca Italy (già Fiat Italia) sta negoziando con Banca Intesa Sanpaolo e per cui intenderebbe chiedere la garanzia statale prevista dal cosiddetto “decreto Liquidità” ha sollevato da parte di esponenti politici (tra gli altri, Andrea Orlando, Romano Prodi e Carlo Calenda) e commentatori una levata di scudi basata sul fatto che Fca, avendo sede in Olanda, pagherebbe le imposte non in Italia bensì in quello che viene percepito addirittura come un “paradiso fiscale”. Da qui la richiesta che, se proprio Fca vuole ottenere la garanzia statale sui prestiti richiesti, almeno riporti la sua sede in Italia o si impegni a non deliberare distribuzioni di dividendi che, secondo la prospettazione che va per la maggiore, avrebbero l’effetto di erodere “base fiscale” alla giurisdizione italiana.

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La richiesta di un prestito per 6,3 miliardi di euro che Fca Italy (già Fiat Italia) sta negoziando con Banca Intesa Sanpaolo e per cui intenderebbe chiedere la garanzia statale prevista dal cosiddetto “decreto Liquidità” ha sollevato da parte di esponenti politici (tra gli altri, Andrea Orlando, Romano Prodi e Carlo Calenda) e commentatori una levata di scudi basata sul fatto che Fca, avendo sede in Olanda, pagherebbe le imposte non in Italia bensì in quello che viene percepito addirittura come un “paradiso fiscale”. Da qui la richiesta che, se proprio Fca vuole ottenere la garanzia statale sui prestiti richiesti, almeno riporti la sua sede in Italia o si impegni a non deliberare distribuzioni di dividendi che, secondo la prospettazione che va per la maggiore, avrebbero l’effetto di erodere “base fiscale” alla giurisdizione italiana.

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Si tratta di richieste sconcertanti, che svelano una totale incomprensione del modo di operare dei gruppi di società, delle regole di funzionamento della fiscalità societaria, nonché dei principi fondamentali sui cui si regge l’Unione europea. Purtroppo, questo “velo dell’ignoranza” non è qui un esercizio filosofico ma un dato di realtà con cui si deve fare i conti, ovviamente non senza preoccupazione: lo sconfortante quadro è quello di un’intera classe politica in preda a pulsioni demagogiche, che essa stessa contribuisce ad alimentare grazie anche alla complicità di mezzi di informazione in larga misura inclini alle stesse pulsioni.

 

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Procedendo con ordine, va anzitutto ricordato che la garanzia statale sui prestiti, prevista dal d.l. 8 aprile 2020 n. 23, ha l’obiettivo di assicurare liquidità alle imprese con sede in Italia: è destinata a sostenere costi del personale, investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali localizzati in Italia, e richiede che siano gestiti i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali. La concessione della garanzia da parte di Sace è inoltre condizionata all’impegno, da parte dell’impresa beneficiaria del prestito e di ogni altra impresa con sede in Italia appartenente al medesimo gruppo, a non approvare la distribuzione di dividendi o il riacquisto di azioni proprie nel corso del 2020.

 

Quest’ultima condizione si spiega nella consueta ottica dei covenants che accompagnano i finanziamenti alle imprese: si tratta di garanzie connesse a indicatori patrimoniali che mirano a contenere il rischio assunto dal creditore, ad esempio precludendo all’impresa finanziata – pena la richiesta di restituzione del prestito – di distribuire liberamente le riserve di cui dispone. Si potrebbe a tal riguardo discutere, in effetti, se un limite alla distribuzione dei dividendi circoscritto temporalmente soltanto al 2020 sia una misura sufficiente a fronte di un finanziamento di durata pluriennale.

 

Si tratta di richieste sconcertanti, che svelano una totale incomprensione
del modo di operare dei gruppi di società, delle regole di funzionamento
della fiscalità societaria, nonché dei princìpi fondamentali su cui si regge l’Unione europea. Purtroppo con questo “velo dell’ignoranza”
bisogna fare i conti

 

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Il dibattito pubblico si è invece sviluppato su un terreno che non esiterei a definire surreale, cioè quello della residenza estera di Fca: perché mai, hanno obiettato in molti, lo stato italiano dovrebbe prestare garanzie a una società che ha sede all’estero e paga le imposte in un altro paese, addirittura in un “paradiso fiscale”, com’è fantasiosamente considerata l’Olanda? Si tratta di un’obiezione subdola e mistificatoria, basata su false premesse, eppure – anzi forse proprio per questo – destinata a far breccia nell’opinione pubblica italiana, come sta in effetti accadendo.

Anzitutto, la residenza estera che molti vorrebbero forzosamente trasferire in Italia non è quella della società destinataria del prestito garantito (Fca Italy spa), che è una società italiana, ma quella della holding del gruppo. La società italiana del gruppo Fca, con stabilimenti in Italia, già paga le imposte in Italia, e non certo in Olanda. Per inciso, la holding del gruppo non ha residenza fiscale in Olanda (dove ha la sede “legale”), bensì in Regno Unito.

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La fissazione della sede legale (Olanda) e della residenza fiscale (Regno Unito) della holding del gruppo Fca all’estero fu determinata da ragioni di governance societaria, non da motivazioni fiscali. Per credere il contrario occorrerebbe ignorare che la fiscalità internazionale si basa sul separate entity approach, secondo cui ciascuna società appartenente a un gruppo paga le imposte sugli utili nella giurisdizione fiscale in cui ha la residenza o una stabile organizzazione, e che le normative di contrasto al transfer pricing mirano a impedire spostamenti dei profitti non giustificati sulla base delle funzioni svolte dalle diverse consociate. E occorrerebbe credere che le imposte sui profitti societari vengano raccolte non presso l’impresa che li produce, ma in capo alla società che la controlla.

 

Eppure, vi è chi ritiene che il fatto che la società italiana possa distribuire dividendi alla capogruppo estera comporti un’erosione della “base imponibile” su cui potrebbe altrimenti contare il fisco italiano, così cadendo vittima di un abbaglio: le imposte si pagano sui redditi allorché questi vengono prodotti, e Fca Italy paga sui propri utili le imposte in Italia. La distribuzione dei dividendi da una società all’altra, nella maggior parte degli stati, non è invece oggetto di ulteriore tassazione, che darebbe luogo a una doppia o plurima imposizione dell’utile societario: anche se la holding del gruppo Fca avesse sede in Italia il 95 per cento dei dividendi a essa distribuiti sarebbe escluso da imposizione (con il residuo 5 per cento tassabile a fronte della deduzione dei costi di gestione della partecipazione).

 

Vi è infine un ulteriore aspetto della vicenda da sottolineare. La pretesa di subordinare la garanzia statale al trasferimento della sede della capogruppo di Fca in Italia viene avanzata da esponenti politici appartenenti a uno schieramento avverso al campo “sovranista”, eppure la stessa rischia di porsi in rotta di collisione con i principi di funzionamento dell’Unione europea: condizionando la concessione dell’aiuto alla residenza italiana del socio-investitore verrebbero violati il principio di libertà di stabilimento e quello di libera circolazione dei capitali, nonché il divieto di operare discriminazioni basate sulla nazionalità o la residenza delle società.

 

*Dario Stevanato, professore ordinario di Diritto tributario Università di Trieste

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