Foto LaPresse

L'anticorpo che manca si chiama fiducia

Claudio Cerasa

Proteggere chi è in difficoltà, trasformare l’Italia in una terra di opportunità, preparare il paese a muoversi come una ballerina di danza e fare tutto ciò che è necessario fare per non aggiungere paura alla paura. Tre imperativi per preparare la Fase due

Più che concentrarsi sulle sbavature del dipiciemme, più che soffermarsi sulle mancanze del governo, più che lamentarci della nostra prolungata libertà vigilata, più che passare il tempo a cercare sul terreno di gioco indizi capaci di dimostrare che l’Italia si sta trasformando in un famigerato stato etico, riservandoci naturalmente il diritto tra due settimane di rimproverare i decisori per aver aperto troppo qualora i dati del contagio dovessero essere nuovamente sopra il livello di guardia, più che affannarci insomma a vestire solidamente i panni dei professionisti del dettaglio ci sarebbe un tema, legato alla lenta e graduale riapertura del paese, che meriterebbe forse di essere messo a fuoco con urgenza e che riguarda la vera grande questione sulla quale si deciderà il futuro del nostro paese.

 

Il tema a cui facciamo riferimento è solo apparentemente astratto e diventerà con ogni evidenza il filo conduttore della fase due del nostro paese grazie alla combinazione di due parole cruciali: credibilità e fiducia. Credibilità e fiducia sono parole difficili da maneggiare in una stagione pandemica ma uno stato con la testa sulle spalle per ragionare sul futuro ha il dovere di non aggiungere paura alla paura. E in questo senso, per non accrescere la spirale del terrore, è utile che i prossimi giorni vengano utilizzati dal governo per non alimentare false aspettative, per non dare l’idea di vivere alla giornata, per non far sentire soli i lavoratori più colpiti dalla pandemia, per non dimenticarsi di creare un reticolato di divieti e obblighi che renda compatibile l’attività commerciale con il contenimento del virus, per non dare l’impressione che l’Italia non sia stata in grado di utilizzare gli ultimi mesi per creare un sistema di testing (tamponi) e di tracing (monitoraggio) e di aumento dei posti in terapia intensiva (più 50 per cento i posti da inizio epidemia) all’altezza delle sfide che spettano alla seconda economia più industrializzata d’Europa.

 

Creare fiducia significa non dare messaggi discordanti, significa parlare con una voce unica, significa non creare illusioni, significa proteggere chi è più in difficoltà ma significa anche creare con urgenza le condizioni giuste per dare la possibilità a chi è in grado di ripartire di farlo a una velocità più sostenuta rispetto al passato (cosa aspetta per esempio il governo a introdurre per le infrastrutture una deroga al codice appalti che dia la possibilità di velocizzare i lavori derogando a tutte le norme dell’ordinamento italiano a esclusione di quelle penali, e ponendo come unico paletto i princìpi inderogabili dell’Unione europea e quelli costituzionali?). Proteggere chi è in difficoltà, preparare il paese a muoversi tra aperture e chiusure come una ballerina di danza, trasformare l’Italia in una terra di opportunità e fare tutto ciò che è necessario fare per non aggiungere altre paure alle già nutrite paure degli italiani.

 

Il ragionamento poi assume una dimensione ancora più importante se si pensa a quello che potrebbe essere nei prossimi mesi il vero punto di forza della difficile ma non impossibile ripresa italiana. Le cronache di questi giorni ci ricordano quotidianamente che nei prossimi mesi il nostro paese aumenterà a dismisura il suo debito pubblico facendolo salire, come previsto dal Documento di economia e finanza approvato dal governo, di venti punti percentuali rispetto alla soglia attuale. Alla fine del 2020, il debito pubblico in rapporto al pil è previsto salire al 155,7 per cento e anche per questa ragione avere un governo capace di creare fiducia nel futuro sarà una condizione non sufficiente ma necessaria per rendere il nostro debito pubblico sostenibile.

 

Ma accanto al dato del debito italiano ce n’è un altro che meriterebbe di essere messo a fuoco ed è un dato che ci mostra un punto di forza spesso sottovalutato del nostro paese: la forza rimossa del suo settore privato. Mai come oggi per misurare l’indebitamento di un paese non basta considerare solo ciò che riguarda il settore pubblico ma occorre considerare anche ciò che riguarda il settore privato, e dunque i debiti aggregati di famiglie e imprese. Se si osserva sotto questa prospettiva il debito italiano si scoprirà che l’Italia è il paese in Europa con il più basso indebitamento delle famiglie e che le nostre imprese hanno uno dei debiti più basso rispetto alla media europea. Il debito del settore privato dell’economia italiana vale il 110 per cento del nostro pil e insieme al settore privato tedesco è quello che vanta la percentuale di debito più bassa dell’Eurozona (la cui media è 162,6 per cento). 

 

Per quanto riguarda invece l’indebitamento delle famiglie italiane, anche questo dato risulta sorprendente: il debito delle famiglie italiane è, in assoluto, il più basso tra i paesi dell’Eurozona, siamo al 43 per cento del pil, percentuale più bassa rispetto alla media europea di 17,5 punti. E se si considera poi che le aziende italiane, rispetto al cosiddetto indebitamento non finanziario, possono vantare performance virtuose, il loro indebitamento è al 69,8 per cento del pil, contro una media europea del 105 per cento, si capirà che oggi come non mai l’economia italiana ha bisogno di essere guidata da regole semplici, misure chiare e da progetti credibili per una doppia ragione. Da una parte c’è la necessità di rendere sostenibile il nostro debito pubblico. Dall’altra parte c’è la necessità di creare fiducia sul domani non per tassare il risparmio privato ma per far sì che le famiglie e le imprese italiane possano trovare il coraggio di fare quello che negli ultimi anni non sono state in grado di fare fino in fondo: investire finalmente sul loro futuro.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.