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Il vaccino anti populista dei mercati

Claudio Cerasa

È capitato con i ministri no euro, le manovre sul balcone, i leader anti europeisti, sta succedendo con le partecipate e accadrà pure con il Mes. Perché in una grande potenza le scelte che spaventano gli investitori vanno contro gli interessi nazionali

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E se fossero i mercati il miglior vaccino contro il populismo? C’è chi ha letto l’elenco di quei nomi come se questi fossero il simbolo di un’ennesima restaurazione, la spia di un sistema marcio che tende diabolicamente a fagocitare ogni rivoluzione per non disturbare il gran manovratore di turno. C’è chi ha letto la scelta del governo di confermare i vertici delle principali aziende partecipate dallo stato come un presunto cedimento alla famigerata casta dei poteri forti (non è quello che ha scritto ieri Paolo Mieli sul Corriere, ma è quello che avranno pensato molti dei suoi lettori) ma quello che molti osservatori hanno mancato di registrare di fronte alla decisione del Mef di confermare buona parte degli amministratori delegati al vertice delle partecipate più importanti d’Italia è un tema che non ha a che fare solo con il futuro di Eni, di Enel, di Poste e di Leonardo ma anche con il futuro del paese.

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E se fossero i mercati il miglior vaccino contro il populismo? C’è chi ha letto l’elenco di quei nomi come se questi fossero il simbolo di un’ennesima restaurazione, la spia di un sistema marcio che tende diabolicamente a fagocitare ogni rivoluzione per non disturbare il gran manovratore di turno. C’è chi ha letto la scelta del governo di confermare i vertici delle principali aziende partecipate dallo stato come un presunto cedimento alla famigerata casta dei poteri forti (non è quello che ha scritto ieri Paolo Mieli sul Corriere, ma è quello che avranno pensato molti dei suoi lettori) ma quello che molti osservatori hanno mancato di registrare di fronte alla decisione del Mef di confermare buona parte degli amministratori delegati al vertice delle partecipate più importanti d’Italia è un tema che non ha a che fare solo con il futuro di Eni, di Enel, di Poste e di Leonardo ma anche con il futuro del paese.

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E il punto è sempre quello: e se fossero i mercati il miglior vaccino contro il populismo? Fino a oggi, i tempi della legislatura più pazza del mondo sono stati scanditi in modo diabolico dalla fiducia mostrata verso il nostro paese dagli investitori nazionali internazionali e non c’è passaggio chiave degli ultimi due anni del nostro paese che non sia stato segnato da un passo indietro del populismo di fronte all’arrivo puntuale sul proprio cammino di un macigno chiamato realtà. E’ successo nel 2018, ai tempi del ministro dell’Economia no euro proposto dal governo gialloverde (no, grazie) e ai tempi delle manovre promosse per sfidare l’Europa (no, grazie), ed è successo anche nel 2019 quando la prospettiva di non andare alle elezioni per non regalare i pieni poteri a un leader antieuropeo venne incoraggiata dagli stessi mercati che nei mesi precedenti avevano aiutato l’Italia a non uscire fuori dai binari della razionalità.

 

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Le nomine delle partecipate hanno un valore e una dimensione diversa rispetto agli equilibri di un governo, ma le logiche che hanno costretto i populisti ad accettare quello che un tempo avrebbero considerato inaccettabile (nel lessico grillino, continuità non è sinonimo di onestà) sono logiche che devono spiegarsi con qualcosa di più nobile delle sciocchezze sulla vittoria dei poteri forti (ma dove?) e sulla fine della purezza del grilismo (ma quale?). E se vogliamo, la logica delle riconferme di Claudio Descalzi (Eni), di Francesco Starace (Enel), di Matteo Del Fante (Poste) e di Alessandro Profumo (Leonardo) è la stessa logica che ci potrebbe suggerire come finirà la partita dell’Italia sul Mes: alla fine, in una grande potenza industriale, ogni scelta che spaventa gli investitori è una scelta che va contro gli interessi del paese.

 

Si poteva cambiare l’ad di un’azienda come Enel che in sei anni, prima della crisi indotta da Covid, ha visto decuplicare i profitti e ha visto raddoppiare il valore delle sue azioni (negli ultimi cinque anni il titolo è passato da 4,2 euro a 8,50 euro e solo nell'ultimo anno, nonostante l'effetto pandemico, il titolo ha fatto più 12,20 per cento)? Si poteva cambiare l’ad di un’azienda come Poste che in pochi anni ha raddoppiato i profitti facendo crescere il suo valore di Borsa del 48 per cento dall’inizio del mandato di Del Fante (Poste ha chiuso il 2019 con un utile raddoppiato rispetto al 2016, 1,3 miliardi, e negli ultimi quattro anni il titolo è passato da 5,4 euro del gennaio 2016 al massimo storico di €11,51 di febbraio 2020)? Si poteva cambiare l’ad di un’azienda come Leonardo che ha chiuso il 2019 con un aumento dei ricavi pari al 12,6 per cento e un ebitda migliorato del 12 per cento rispetto all’anno precedente? E per quanto si possa essere giustizialisti di fronte a Descalzi (il Fatto ha guidato una campagna contro l’ad di Eni per ragioni giudiziarie ma non sembra avere intenzione di fare barricate per impedire a una consigliera d’amministrazione del suo giornale di diventare presidente dell’Eni: viva il conflitto di interessi!) si poteva davvero cambiare l’ad di un’azienda che nel 2020, in una fase di grandi difficoltà e grandi trasformazioni per il settore, ha comunicato risultati finanziari apprezzati dagli investitori (nel 2019 il free cash flow organico ha superato i 4 miliardi di euro, quasi raddoppiando il risultato del 2014, e il debito netto si è ridotto del 16 per cento rispetto al 2014) portando nel febbraio 2020 le così dette raccomandazioni “buy” su Eni al 54 per cento rispetto al 25 per cento del 2014 anche grazie alla presenza di un piano strategico ambizioso proiettato fino al 2050 che deve aver pesato non poco sulla riconferma dell’attuale ad?

 

Non si può dire che il grillismo sia rimasto a bocca asciutta nel poker delle partecipate (il prossimo ad di Terna, Stefano Donnaruma, è stato promosso con merito da Acea, terreno di Virginia Raggi; il prossimo ad di Enav, Marco Simioni, è stato promosso con meriti non chiari dal disastro di Atac alla sfida di Enav). Ma si può dire che alla lunga il populismo tende ad accontentarsi delle rimanenze ed è probabile che quando i principali azionisti del governo dovranno decidere se attivare o no un fondo (il Mes) che mai avrebbero pensato di poter attivare faranno come spesso hanno fatto nei momenti decisivi e cercheranno un qualsiasi hashtag per giustificare un fatto elementare: per essere compatibile con la realtà il populismo ha necessità assoluta di smentire se stesso.

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