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Perché concorrenza vuol dire anche democrazia

Giovanni Pitruzzella

Di fronte alla grande concentrazione di potere dei giganti della rete, c'è chi auspica un ritorno alla dimensione politica dell'Antitrust. Una china pericolosa. Una severa tutela della concorrenza garantisce di per sé una società libera

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Il capitalismo deve essere riformato per preservare la democrazia? Questo processo di riforma coinvolge l’Antitrust? Quale rapporto c’è tra democrazia e tutela della concorrenza? Simili interrogativi sono ben presenti nel dibattito pubblico che negli Stati Uniti sta accompagnando il lungo processo di selezione dei candidati per le elezioni presidenziali, e trovano spazio sui media occidentali soprattutto dopo l’articolo di Martin Wolf pubblicato sul Financial Times, il cui titolo poneva un problema enorme: il “rigging capitalism” (capitalismo di relazione) sta distruggendo la democrazia?

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Il capitalismo deve essere riformato per preservare la democrazia? Questo processo di riforma coinvolge l’Antitrust? Quale rapporto c’è tra democrazia e tutela della concorrenza? Simili interrogativi sono ben presenti nel dibattito pubblico che negli Stati Uniti sta accompagnando il lungo processo di selezione dei candidati per le elezioni presidenziali, e trovano spazio sui media occidentali soprattutto dopo l’articolo di Martin Wolf pubblicato sul Financial Times, il cui titolo poneva un problema enorme: il “rigging capitalism” (capitalismo di relazione) sta distruggendo la democrazia?

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Concentrazione di potere economico, particolarmente in capo alle “tech companies”, ristagno della produttività, crescita delle diseguaglianze, delegittimazione delle élites politiche ed economiche colpiscono gran parte delle economie capitalistiche, ma cosa c’entrano con tutto ciò la concorrenza e l’Antitrust? In realtà, fin dalle sue origini con lo Sherman Act del 1890, l’Antitrust si trova nel punto di intersezione tra il mercato, la democrazia e la coesione sociale. Alla base della prima legge antitrust ci stavano infatti non soltanto preoccupazioni riguardanti il funzionamento dei mercati ma altrettanto forti preoccupazioni sull’influenza negativa che la concentrazione di potere economico aveva sulla democrazia, la libertà politica e l’eguaglianza dei cittadini. La dimensione politica della tutela della concorrenza era sottolineata da uno dei protagonisti della lotta contro i monopoli, Louis Brandeis, il quale nel 1911 affermava che la libertà va vista come libertà non solo dalla coercizione statale ma anche nei confronti dei poteri privati.

 

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Tali molteplici finalità del diritto della concorrenza sono state abbandonate negli Stati Uniti, dopo che, alla fine degli anni Settanta del ‘900, sono stati pubblicati due dei libri più influenti che siano stati scritti in questa materia. Mi riferisco a “The Antitrust Paradox” di Robert Bork e ad “Antitrust Law” di Richard Posner, che hanno segnato un cambiamento teorico epocale, che ha poi trovato piena attuazione nell’“enforcement” antitrust statunitense a partire dalla presidenza Reagan. “Una politica in guerra con sé stessa” era il sottotitolo del libro di Bork che sintetizzava in maniera efficace la tesi secondo cui la pratica del diritto della concorrenza era basata su un coacervo di premesse contraddittorie che producevano talora effetti procompetitivi ma più spesso effetti protezionistici. La prescrizione era chiara: eliminare queste contraddizioni e i troppi obiettivi (economici e anche politici), rimuovendo le inefficienze che ne scaturivano, per pervenire ad un rilassamento delle regole antitrust. 

 


I titolari di un potere economico così forte riescono a condizionare gli esiti del processo di decisione politica ottenendo regole a loro favorevoli che, alimentando un circolo vizioso, consolidano il loro potere economico. Quindi più diseguaglianza, meno democrazia, meno produttività. Un confronto tra Europa e America


 

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Da quel momento l’unico obiettivo della pratica antitrust è diventato il benessere del consumatore – identificato con l’efficienza economica – e le considerazioni di efficienza hanno permesso di giustificare comportamenti che un tempo sarebbero caduti nelle maglie strette del diritto della concorrenza. Allentare il suo rigore – secondo gli autori citati – avrebbe permesso alle imprese di aumentare l’efficienza, ridurre i costi e possibilmente trasferire tale riduzione sui prezzi con evidenti vantaggi per il consumatore. In questo modo si sarebbe favorita l’innovazione, la creazione di nuovi prodotti e la crescita economica. Le principali conseguenze sono state l’indebolimento del diritto antitrust in materia di concentrazioni e di comportamenti escludenti e l’attenzione quasi esclusivamente prestata ai prezzi, la cui riduzione era considerata il vero e tangibile risultato assegnato al diritto della concorrenza.

 

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L’economia delle piattaforme con l’enorme concentrazione di potere economico favorita da economie di scala, da “effetti di rete”, effetti di “lock-in”, dal controllo dei big data, ha spinto a interrogarsi sulla perdurante validità dell’approccio di Bork e dei Chicagoans. In questi mercati si affermano nuovi monopolisti e non sembra più neppure vero che ci sia una “concorrenza per il mercato” per cui un monopolista sarebbe dopo un po’ di tempo rimpiazzato da un altro monopolista. Piuttosto molti sono ormai convinti che gli attuali monopolisti siano in grado di bloccare l’ingresso di nuovi innovatori, per esempio attraverso le “chilling acquisitions” cioè attraverso la sistematica acquisizione di quelle compagnie che potrebbero diventare i competitori di domani. La crescita di concentrazione del potere economico non si è limitato ai giganti della rete, ma ha caratterizzato praticamente tutti i settori dell’economia statunitense, come dimostra una letteratura ormai assai vasta.

 

Oggi, molti autori, come Baker in “The Antitrust paradigm”, osservano che, contrariamente ai precetti di Bork e Posner, insieme alla crescita del “market power” è declinata la produttività mentre sono aumentate considerevolmente le diseguaglianze. Stiglitz, a sua volta, evidenzia l’aumento delle rendite di posizione favorite anche da un “market power” privo di limiti effettivi. Godere di una rendita significa appropriarsi di una maggiore quantità delle risorse prodotte senza contribuire al loro accrescimento, con la conseguenza di determinare un aumento delle diseguaglianze. Non solo aumento delle diseguaglianze ma anche distorsioni del processo democratico, perché i titolari di un potere economico così forte riescono a condizionare gli esiti del processo di decisione politica ottenendo regole a loro favorevoli che, alimentando un circolo vizioso, consolidano il loro potere economico. Quindi più diseguaglianza, meno democrazia, meno produttività. Queste riflessioni si intrecciano in modo sempre più stretto con quelle che riguardano l’economia delle piattaforme e le sue conseguenze sulla democrazia. Tra cui spicca l’analisi di Shoshana Zuboff sul nuovo “capitalismo di sorveglianza”, secondo cui le “technology firms” hanno creato una nuova forma di potere capace di modificare i comportamenti degli individui operando al di fuori di ogni consapevolezza individuale e responsabilità pubblica. Questo immenso potere andrebbe contrastato in nome della libertà personale e della democrazia. 

 


La tutela della democrazia e il contrasto alle diseguaglianze non sono obiettivi che possono essere perseguiti direttamente dalle Autorità della concorrenza, ma costituiscono effetti indiretti di un “enforcement” antitrust irrobustito che fronteggia la crescita abnorme e gli abusi del “market power”


 

In tutte le analisi citate si chiede a gran voce, insieme a nuovi interventi regolatori, di irrobustire la tutela della concorrenza ritornando all’antitrust delle origini. Questa proposta oggi è sviluppata dal “Neo-Brandesian Movement”. Uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, Tim Wu, definisce l’agenda di questo movimento nei seguenti punti: 1) riformare il controllo delle concentrazioni in modo da impedire l’eccessiva crescita del potere di mercato; 2) rendere nuovamente possibile la pratica dei “breakups” (lo scioglimento) di grandi gruppi, come è avvenuto nei casi storici di Standard Oil e AT&T; 3) tali rimedi strutturali dovrebbero prendere in considerazione non solo ragioni di efficienza economica, ma anche preoccupazioni relative alla concentrazione di troppo potere a favore di una singola piattaforma, come Facebook, che ha assunto una capacità impressionante di incidere sulla libertà di informazione; 4) superare l’obiettivo del benessere del consumatore favorendo un maggiore interventismo dell’Antitrust.

 

Ma cosa significa esattamente rivedere gli obiettivi del diritto della concorrenza? Caricare l’Antitrust di molti compiti tra loro eterogenei può portare troppa incertezza. Un problema sollevato, tra gli altri, dall’autorevole giudice Douglas Ginsburg, secondo cui in una simile evenienza le autorità della concorrenza e le corti sarebbero libere di scegliere tra molteplici, incommensurabili valori, spesso tra loro in conflitto. A queste preoccupazioni Tim Wu replica nel modo seguente: il “consumer welfare” standard chiede ai giudici e alle autorità di concorrenza di raggiungere qualcosa di impossibile, ossia di misurare gli effetti in termini di benessere di transazioni o di condotte assai complesse; i “neobrandesiani” propongono uno standard più semplice e più adatto al ragionamento giudiziario, perché si tratterebbe di valutare se una condotta promuove la concorrenza o se invece la danneggia. Il test della protezione della concorrenza è focalizzato sulla protezione di un processo, mentre il test del benessere del consumatore fa riferimento a un valore la cui misura è eccessivamente difficile, se non impossibile.

 

Tutto ciò significa una cosa importantissima: l’Antitrust non deve essere caricato di obiettivi politici, piuttosto la sua finalità resta economica e dovrebbe consistere nel mantenere aperto il processo competitivo contrastando l’accumulo di potere di mercato. La tutela della democrazia e il contrasto alle diseguaglianze non sono dunque obiettivi che possono essere perseguiti direttamente dalle Autorità della concorrenza, ma costituiscono effetti indiretti che possono prodursi come conseguenza di un “enforcement” antitrust irrobustito che fronteggia il suo problema originario, e cioè la crescita abnorme e gli abusi del “market power”.

 

Tutto ciò riavvicina la riflessione americana alla pratica del diritto della concorrenza europeo. Ed infatti lo stesso Tim Wu scrive che gli americani dovrebbero guardare all’esperienza europea che non ha mai abbandonato la pratica di aprire “big cases” e che oggi costituisce la guida nello scrutinare i “big techs”, come dimostrano i casi decisi dalla Commissione con riguardo a Google. In effetti, la tutela della concorrenza in Europa è stata sempre vigorosa e – nonostante i frequenti richiami allo standard del benessere del consumatore – ha sempre prestato attenzione alla garanzia del carattere aperto e pluralista del processo competitivo, preoccupandosi degli abusi favoriti da un’eccessiva concentrazione di potere economico (proprio in quest’ottica sembrano collocarsi i casi recenti riguardanti Google). In questo modo si coglie la perdurante influenza delle teorie ordoliberali che hanno animato il dibattito intellettuale che è stato all’origine del diritto della concorrenza europeo.

 

L’obiettivo ultimo della politica della concorrenza dell’ordoliberalismo – scolpito nelle pagine di Eucken, Rüstow, Röpke, Böhm – consisteva nel preservare una società libera. Per raggiungere questo obiettivo occorreva perseguire la sistematica eliminazione della concentrazione del potere economico privato attraverso la garanzia di un’effettiva competizione nel mercato. La struttura pluralistica del mercato doveva servire non soltanto a realizzare l’efficiente allocazione delle risorse ma anche a garantire una società libera in cui lo stato non cadesse preda degli interessi riferibili alle grandi concentrazioni di potere economico. Ma ammesso tutto ciò, bisogna evitare il pericolo della politicizzazione dell’Antitrust, che potrebbe portare a piegare la tutela della concorrenza a fini di parte, a obiettivi protezionistici o peggio di sostegno del governo o delle forze politiche dominanti (pericolo particolarmente intenso in un periodo di crisi della democrazia liberale). La tutela di una società libera non è il fine diretto della tutela della concorrenza ma è la conseguenza indiretta di una pratica antitrust che persegue una finalità economica – il carattere aperto del processo competitivo – e utilizza standard di valutazione rigorosamente tecnici.

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