PUBBLICITÁ

L’Ue discute del ruolo dello stato imprenditore, ma l’Italia è distratta

Maurizio Maresca

L'idea è di creare una politica comune modificando regole consolidate come quelle in materia di concentrazioni e di controllo degli investimenti diretti stranieri sulla base dell’“interesse europeo”

PUBBLICITÁ

E’ un fiorire di opinioni in Italia sul nuovo ruolo dello stato imprenditore, in un momento di crisi degli assetti neoliberisti e delle regole europee che ne sono espressione. Queste opinioni talora si spingono fino a mettere in dubbio i principi essenziali dell’ordinamento europeo: come il diritto della concorrenza, le regole sul mercato interno (appalti e concessioni) e la parità fra l’impresa pubblica e quella privata. Il tutto in un contesto in cui è la politica, e non l’amministrazione pubblica o le autorità di regolazione, a dettare le regole.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


E’ un fiorire di opinioni in Italia sul nuovo ruolo dello stato imprenditore, in un momento di crisi degli assetti neoliberisti e delle regole europee che ne sono espressione. Queste opinioni talora si spingono fino a mettere in dubbio i principi essenziali dell’ordinamento europeo: come il diritto della concorrenza, le regole sul mercato interno (appalti e concessioni) e la parità fra l’impresa pubblica e quella privata. Il tutto in un contesto in cui è la politica, e non l’amministrazione pubblica o le autorità di regolazione, a dettare le regole.

PUBBLICITÁ

 

Non c’è dubbio che gli assetti neoliberisti che hanno prodotto Fmi, Gatt, Wto e Ue, che subordinano l’esercizio dell’attività economica al pubblico interesse, impongono oggi alcune riflessioni. In crisi la governance mondiale dell’economia, appunto per la divergenza sulle regole di base e quindi il venir meno del level playing of the field descritto nei documenti dell’Unione o del Wto, sempre più spesso tanto i colossi americani come le imprese pubbliche cinesi sfuggono alle regole sugli aiuti di stato, alle norme che disciplinano la presenza del pubblico nelle imprese e agli standard sulle concentrazioni. E quindi queste imprese (talvolta espressione della politica sovrana) investono nel mercato europeo in condizioni di vantaggio. Di fronte a una competizione globale che tende a liberarsi delle regole le imprese europee più evolute devono, quindi, riorganizzarsi anche con l’aiuto degli stati nazionali e dell’Unione. Di qui la spinta verso una politica comune dell’Unione in materia di industria, che la presidente Ursula von der Leyen ed i vice presidenti Margrethe Vestager (che in un primo tempo non ha esitato a prendere una posizione critica in occasione della concentrazione Alstom Siemens) e Frans Timmermans stanno costruendo, in virtù della quale l’Europa “parli con una sola voce”: cioè in base alla quale le scelte di politica industriale siano rimesse non più ai singoli stati membri ma alla Commissione europea applicandosi criteri ancora da definire. Una politica industriale che, con tutta probabilità, comporterà anche la modificazione di regole consolidate come quelle in materia di concentrazioni e di controllo degli investimenti diretti stranieri sulla base dell’“interesse europeo”. O il ricorso a fondi internazionali governati dall’Unione a sostegno dei c.d. European Champions.

 

PUBBLICITÁ

Questo lavoro, del quale si ha la sensazione il nostro paese non sia del tutto consapevole (con esclusione di Confindustria), impegnerà i prossimi due anni di lavoro all’interno della conferenza di riforma dell’Unione da poco avviata. Università e industria italiane dovranno, in particolare, fornire valutazioni che tengano conto degli assetti nazionali e non penalizzino una industria piccola e tendenzialmente sottocapitalizzata anche se molto efficiente (per essere chiari non Alitalia, Ilva e Popolare di Bari). Altro è l’esempio, provinciale e culturalmente subordinato, che viene oggi dal nostro paese: qui il tema non pare quello di rafforzare i campioni nazionali ma, semmai, quello di salvare dal fallimento (che non è il “fallimento del mercato” come qualche politico crede) le nostre imprese, decotte ed evidentemente senza mercato, per evitare problemi sociali. E questo anche a rischio di violare le norme sugli aiuti di stato che a pena di nullità vietano agli stati di mettere risorse in imprese se non sulla base di progetti di mercato. L’Italia sembra, in breve, incapace di una politica industriale nazionale od europea e piuttosto condannata ad evitare i 15.000 esuberi di Taranto e i 5.000 di Alitalia anche coinvolgendo lo stato e le sue imprese pubbliche. Ci si attenderebbe il contrario: un paese degno delle sue tradizioni (anche di politica industriale) e in grado di esercitare la leadership europea come negli anni 50 e 60 con autorevolezza e serietà: espressione di idee e proposte non meno di altri paesi.

PUBBLICITÁ