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Salvateci dalle clausole di salvaguardia

Tortuga

Nate con le migliori intenzioni, per stabilizzare il bilancio pubblico, vengono sfruttate per scaricare l’onere delle coperture sugli anni (e i governi) successivi. E quando scattano, rischiano di danneggiare le classi meno agiate. Uno studio di Tortuga

“Evitare l’aumento dell’Iva”. Questo era il primo obiettivo dichiarato delle forze che sostengono il secondo governo guidato da Giuseppe Conte. E così sembra si farà, secondo le prime bozze definitive della legge di Bilancio. Negli ultimi mesi molto si è discusso su come fossero nate e state gestite dai governi precedenti e quanto fosse importante disinnescarle. Ma troppo poca attenzione è stata dedicata, dal nostro punto di vista, a domande altrettanto rilevanti: quando e come le clausole Iva sono diventate il fardello che conosciamo? E ancora: è possibile uscire da questa trappola in cui ci siamo infilati? Rispondere a queste domande è fondamentale per poter immaginare una politica economica di lungo respiro.

 

La storia parte da diversi anni fa: le clausole di salvaguardia sono state legalmente introdotte nel 2002 con il decreto 194/2002, e nascono con la funzione di correggere scostamenti imprevisti di bilancio rispetto alle previsioni di spesa. La legge 196/2009 le definisce qualche anno dopo invece come le conosciamo oggi: nell’eventualità in cui vengano a mancare delle coperture, le clausole garantiscono entrate nelle casse dello stato attraverso un aumento automatico delle imposte (in particolare l’Iva) o un taglio delle spese. La ragione dell’introduzione delle leggi del 2002 e del 2009 risale all’entrata in vigore del Patto di stabilità e di crescita: quando un paese supera il limite di deficit o di debito stabiliti dal trattato di Maastricht, ha pochi mesi di tempo per correggere il proprio bilancio pubblico. E’ in questo contesto che vengono attivate le prime clausole di salvaguardia del 2011.

 

Sulla storia già in tanti si sono dedicati. Particolarmente chiaro è un recente report del centro studi di Confindustria sul tema. Le prime clausole sono introdotte nella burrascosa estate del 2011 dal governo Berlusconi, che introduce un taglio lineare alle agevolazioni fiscali di 4 miliardi per il 2013 e 20 miliari per il 2014. Questi tagli sarebbero entrati automaticamente in vigore, a meno che il Parlamento non fosse riuscito a recuperare tali risorse in altro modo entro qualche mese. Con le clausole l’esecutivo di centrodestra voleva raggiungere due obiettivi: da un lato rassicurare le istituzioni e i mercati internazionali con misure automatiche e quindi più credibili di generiche promesse, dall’altro assumere misure urgenti diluendo però nel tempo l’onere, soprattutto politico, delle coperture.

 

Occorre notare però che le clausole di Berlusconi non avevano a che fare con l’Iva, come oggi siamo abituati a pensare. L’imposta sul valore aggiunto entra in gioco invece a dicembre del 2011, con il governo Monti. Il decreto cosiddetto “Salva Italia” va a sovrascrivere quello di Berlusconi, cancella i tagli alle agevolazioni fiscali e introduce un incremento di due punti percentuali delle aliquote Iva nel 2012 e un ulteriore aumento del mezzo punto dal 2014. Questo – come sempre – a meno che il governo non riesca a trovare risorse per 13 miliardi nel 2013 e per 16 e mezzo nel 2014 (i valori non sono cumulati: se si fossero trovati i primi 13 miliardi, l’anno successivo le clausole sarebbero ammontate a solo 3 miliardi e mezzo). La partita si sposta in avanti quindi. La storia di queste clausole prosegue tra coperture con tagli di spesa o aumenti di entrate e sterilizzazioni a debito, che spostano all’anno successivo il problema. La parola fine (momentanea) arriva nel 2013, con il governo Letta, che decide di aumentare parzialmente l’Iva e dare un taglio con il passato.

 

La giostra riprende però a girare con gli esecutivi successivi. E’ quello guidato da Matteo Renzi che abbonda, con aumenti previsti di quasi 13 miliardi per il 2016 e valori ancora più alti per gli anni successivi. Il centrosinistra lascerà un conto miliardario da pagare ai governi della legislatura attuale, che di certo non sono da meno. Il premier Conte, a fine dicembre 2018 in piena trattativa con la Commissione europea per evitare la procedura di infrazione, decide un ulteriore aumento delle clausole. Arrivano così a 23 miliardi per il 2019 (che il nuovo governo sta disattivando) e alla cifra record di 28 miliardi – quasi due punti percentuali del pil – per il 2020.

 

La deriva delle clausole

Perché le clausole rappresentano un problema così grosso? Principalmente, perché anche se nate con le migliori intenzioni sono andate alla deriva. Hanno totalmente disatteso il compito di stabilizzazione del bilancio pubblico e vengono invece sfruttate per scaricare l’onere delle coperture della gestione di bilancio agli anni (e ai governi) successivi. Questo problema è aggravato dalla breve durata e scarsa stabilità delle maggioranze politiche in Italia, che rafforza gli incentivi politici a introdurre subito nuove spese miliardarie e posticipare il pagamento del conto. Politicamente, questo pone seri problemi di accountability dei parlamentari e membri del governo, lasciando agli elettori poco spazio per poter giudicare accuratamente l’operato di chi è al potere. Economicamente, invece, le clausole di salvaguardia provocano altri due problemi. Il primo è il rischio che effettivamente scattino causando un aumento delle imposte: trattandosi principalmente di tassazioni indirette sono fortemente regressive (cioè più gravose per chi ha di meno) e rischiano di danneggiare in particolare le classi sociali meno agiate. In secondo luogo, utilizzare spesso e a sproposito le clausole di salvaguardia genera un circolo vizioso per cui gli spazi di spesa pubblica in manovra di bilancio sono sempre più ridotti: si pensi che impedire l’aumento dell’Iva l’anno prossimo è costato 23 miliardi di euro, in una manovra di bilancio da poco più di 30 miliardi. Quasi 8 euro su 10 sono stati spesi semplicemente per non far aumentare le tasse.

 

Inoltre, conta anche il modo in cui vengono sterilizzate, ossia come vengono trovati i fondi necessari a scongiurare l’aumento delle imposte programmate in precedenza. Lo scarso spazio di manovra residuo ha spinto i governi a sterilizzare le clausole di salvaguardia col deficit anziché tramite coperture “reali” (maggiori entrate o minori spese). E anche nei casi in cui vengano impiegate queste seconde coperture più solide, talvolta si tratta comunque di finanziamenti temporanei e che vanno a scadere dopo qualche anno. Nella prima fase, nel triennio 2012-2014, l’80 per cento delle clausole sono state disattivate con coperture “reali”, mentre per solo poco più del 4 per cento è stato utilizzato il deficit. Recentemente invece, tra il 2015 e il 2019, è diventato comune l’utilizzo della spesa in deficit per trovare le risorse necessarie a disinnescarle. Dai dati proposti nell’analisi del centro studi di Confindustria si nota che – a parti invertite – l’80 per cento delle clausole in quegli anni è stato evitato attraverso il deficit. Così ne sono state inibite le buone potenzialità: da strumento di rassicurazione di istituzioni europee e dei mercati, le clausole di salvaguardia sono diventate strumenti che incrementano l’incertezza sui conti pubblici italiani. Tanto è vero che la Commissione non considera più nelle sue previsioni i possibili introiti derivanti dall’attivazione delle clausole poiché lo reputa uno scenario irrealistico.

 

E’ evidente che l’utilizzo spropositato di questo strumento di bilancio stia conducendo la politica economica italiana verso un vicolo cieco. La mancata sterilizzazione delle clausole di salvaguardia, con conseguente aumento dell’Iva, potrebbe generare una contrazione dei consumi interni. D’altra parte, continuare a scongiurarle con aumento del deficit avrebbe effetti molto negativi sulle già vessate generazioni future e sui rapporti con istituzioni europee e mercati. Circoscrivere l’utilizzo delle clausole a casi limitati e progressivamente diminuirne l’utilizzo, fino ad abolirle, dovrebbe essere uno degli obiettivi della politica. Purtroppo, all’orizzonte poco sembra muoversi: dal governo, finora, è arrivata solo qualche dichiarazione di inversione di rotta. Ancora troppo poco.

 

Come uscire dalla trappola

A questo punto, sembra lecito chiedersi come si possa uscire dal vicolo cieco. Per fortuna, ci possono essere più strade, e la prima è la soluzione legislativa. Come già sottolineato, nel 2009 una legge qualifica espressamente le clausole come automatiche (la loro attivazione non richiede ulteriori provvedimenti legislativi) ed effettive (devono coprire per intero gli oneri che eccedono le originarie previsioni di spesa). In questa formulazione, esse rischiano però di violare la riserva di legge degli articoli 23 e 81 della Costituzione. Infatti, le clausole scattano automaticamente se non vi sono coperture finanziarie, senza bisogno di varare nuove leggi, in contrasto con la riserva di legge dell’articolo 23. Questa evita che sia arbitrariamente imposto al cittadino un tributo la cui entità e il cui contenuto non siano desumibili dalla legge. Invece, l’effettività fa sì che le salvaguardie possano entrare in conflitto con gli obiettivi di pareggio di bilancio (articolo 81) dei successivi esercizi finanziari: le clausole possono essere prorogate per un triennio, e l’esecutivo può rinviare il problema di copertura finanziaria senza risolverlo.

 

L’illegittimità costituzionale e le difficoltà applicative delle clausole hanno portato alla riforma della legge di contabilità pubblica del 2016. Le leggi precedenti lasciavano al ministero dell’Economia il potere di decidere sulle clausole, e rimettevano in capo al ministro solo l’obbligo di riferire alle Camere sulle cause degli scostamenti dalle previsioni di spesa. La riforma del 2016 ha introdotto, invece, una procedura che prevede il coinvolgimento del Mef e della collegialità del Consiglio dei ministri, nonché il giudizio delle commissioni Bilancio delle Camere. Se le spese impreviste non sono ingenti e possono essere compensate nell’esercizio in corso, la legge indica che andrebbero ridotti gli stanziamenti di bilancio del ministero competente con un decreto del ministro dell’Economia o con un decreto del presidente del Consiglio. Altrimenti, andrebbe varata una legge di Bilancio adottando misure volte a correggere le spese impreviste. Il nuovo meccanismo ha introdotto anche un maggiore coinvolgimento delle Camere nell’attivazione delle salvaguardie e mira a ridurre la formazione automatica di ingenti spese a carico dei futuri esercizi fiscali. Attivare le clausole di salvaguardia sarebbe dovuta dunque essere una decisione di carattere prettamente politico. Ci si augurava che fosse finito il loro tempo, ma a disattendere quelle norme fu proprio il governo che le varò, ovvero l’esecutivo guidato da Matteo Renzi seguito a ruota da quelli successivi.

 

Nonostante la riforma, le clausole lasciano ancora spazio alla grave deresponsabilizzazione dei policy maker, che possono scaricare l’onere del debito sui governi futuri. E’ venuto però il momento di darci un taglio. La crescita economica del paese è anemica e la mancanza di sviluppo rende impossibile risolvere alcune disuguaglianze che persistono nel paese. Servono maggiori investimenti pubblici e riforme strutturali per rendere più efficienti giustizia e pubblica amministrazione. Oltre a un aumento di spesa per l’istruzione obbligatoria e universitaria. Tutto ciò senza far aumentare il debito pubblico rispetto al pil, già a livelli record. Come fare? Una strada può essere un piano pluriennale, meglio se condiviso da tutte le forze politiche, per abolire del tutto le clausole di salvaguardia nel nostro paese.

 

Per realizzare questo cambiamento economico e legislativo servirebbe un patto tra forze politiche e con le classi dirigenti di questo paese: non vanno aggiunte nuove clausole di salvaguardia per nessun motivo. Chi lo facesse, dovrebbe pagare un costo politico molto alto. L’ultima volta che è accaduto, con il primo governo Conte al termine delle trattative con l’Unione europea, questo costo non si è palesato. Ma servirebbe anche fare un altro importante passo in avanti: oltre a non aggiungere nuovi salassi, andrebbe previsto un piano di recupero delle clausole attuali. Per riuscirci serve un accordo tra maggioranza e opposizione: in Italia i governi e le legislature durano troppo poco per lasciare a un’unica coalizione il compito di trovare i miliardi necessari per l’operazione. Se così non fosse i rischi sarebbero due. Primo, potrebbero prevalere gli incentivi – evidenti anche oggi – di scaricare il peso fiscale di alcune operazioni economiche espansive su altri governi nel futuro. Secondo, potrebbe essere materialmente molto difficile completare l’operazione prima della caduta improvvisa del governo e il rischio di veder sfumare gli sforzi fatti sarebbe a quel punto elevato. Un accordo condiviso dal maggior numero di forze politiche su dove, come e in che tempi reperire le risorse necessarie e finanziarie gli attuali 18 miliardi di entrate previste avrebbe anche un altro vantaggio. Potrebbe permettere di recuperare parte di quella credibilità che è stata persa con l’avvento delle clausole di salvaguardia, sia a livello internazionale che sul mercato interno.

 

Andrà poi compiuto un ulteriore passo. Dopo aver abolito le clausole oggi in essere, dovrà essere evitata ogni possibilità di ricomparsa di questo strumento fiscale in futuro. A questo fine, sarebbe necessaria una riforma che vada a eliminare l’impianto normativo che legittima le clausole di salvaguardia attuali. Un’eventuale riforma potrebbe focalizzarsi su due punti principali:

1. L’esecutivo che attiva una clausola deve obbligatoriamente individuare nella legge di Bilancio delle misure per poterla disinnescare anche negli anni successivi, così da rispettare l’obbligo del pareggio di bilancio anche in un’ottica di medio periodo;

2. Al momento le clausole sono giustificate dal fatto che i governi individuano, in poco tempo dall’approvazione del bilancio, delle spese “impreviste” nell’ordine di miliardi di euro. Sarebbe necessario migliorare le previsioni di spesa, in modo tale che non possano essere strumentalizzate dai decisori politici per rimandare tagli di spesa e aumenti fiscali impopolari.

 

Scegliere la giusta rotta

Crediamo di aver chiarito come l’utilizzo delle clausole di salvaguardia, una volta ben accolto come strumento di rassicurazione da istituzioni e mercati internazionali, abbia generato un circolo vizioso Il conto – spesso molto salato – delle politiche espansive di un governo viene presentato ai governi successivi che, ultimamente, a loro volta scaricano il salasso sulle future generazioni già oltremodo vessate. Le proposte brevemente presentate in queste righe possono essere un punto di partenza per far ritornare al centro del dibattito pubblico la responsabilità politica e finanziaria. Evitare che i governi possano eludere i costi finanziari delle proprie riforme è un primo passo – necessario e non sufficiente – affinché la politica economica italiana possa essere di lungo periodo e non orientata solo al brevissimo termine.

 

a cura del think-tank Tortuga

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