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Abbiamo abolito il lavoro

Giuseppe Sottile

La favola malinconica di due giovani, Vincenzo e Caterina, che pur avendo la possibilità di costruirsi un avvenire, preferiscono starsene al calduccio del reddito di cittadinanza. Una storia siciliana

Succedeva a Natale. Lo chiamavo per gli auguri e lui, Carmelo Mascalucia, mio compagno di scuola e compare per tutta la vita, mi ripeteva la litania della nostra epopea. Un’epopea della miseria. Mi ricordava che eravamo nati lì, in quel pizzo di montagna dimenticata da Dio e dagli uomini; che avevamo conosciuto la cosiddetta civiltà contadina, fatta di aria fresca ma anche di sale e cipolla; che i nostri padri si erano tolto il pane dalla bocca per farci studiare e tirarci fuori da quelle zolle di miseria. E succedeva pure a Pasqua, a Ferragosto e tutte le volte che in questi ultimi anni ci sentivamo per gli auguri o per il semplice piacere di sentirci.

 

Carmelo, mio compagno di scuola e compare per tutta la vita, aveva un solo assillo: la disoccupazione del figlio

Carmelo, mio compagno di scuola e compare per tutta la vita, aveva un solo assillo: la disoccupazione del figlio, croce e delizia del suo ruvido cuore. Aveva programmato per lui l’avvenire più bello, la carriera più irresistibile, il futuro più radioso; persino un ipotetico trasferimento in città, doloroso – certo – ma all’un tempo addirittura esaltante. Ricordava che noi, quelli della generazione precedente, avremmo fatto carte false pur di lasciare l’amato e desolato paese della profonda Sicilia per approdare in città luminose, fantastiche e fosforescenti, e dal nome altisonante come Palermo, Catania o, manco a dirlo, Milano, Torino, Lucerna; perché la profonda Sicilia, come la chiamavano i letterati, era buona per i romanzi e per il cinematografo ma a noi non avrebbe dato altro che pane e cipolla; e nelle feste comandate magari un piatto di pasta col sugo di castrato.

 

Il figlio a cui Carmelo Mascalucia ha dedicato tutte le sue attenzioni e tutti i suoi sogni si chiama Vincenzo, detto familiarmente Enzuccio, e ha 22 anni. Si è diplomato tre anni fa all’istituto Alberghiero, l’unica scuola superiore del paese. Quando il sindaco l’aveva inaugurata erano gli anni in cui l’agricoltura moriva. “Non ci resta che la vocazione turistica”, aveva detto il primo cittadino per consolare l’uditorio. “Noi avevamo chiesto un liceo o una ragioneria o un corso per geometri, ma ci hanno dato l’Alberghiero. E noi ne faremo un gioiello, sì un gioiello da legare al territorio”: così aveva concluso. Ma, con la morte dell’agricoltura, il territorio si era dissanguato e l’Alberghiero era diventato una catapecchia nel deserto; o meglio: un parcheggio temporaneo per futuri disoccupati o per altri, futuri emigrati.

 

Dichiarava che, se necessario, sarebbe andato a lavorare pure su una nave da crociera o nei faraonici alberghi di Dubai e Abu Dhabi

Carmelo non si dava pace. Lui, alla fine della giostra, era riuscito a trovare nel paese – il mio Macondo, lo chiamava; sfotticchiando me che me n’ero andato – un posto di maestro alla scuola elementare: non navigava nell’agiatezza però tirava dignitosamente a campare. Ma per Vincenzo sapeva che non c’era altra strada se non quella di un treno, una corriera o un aereo che lo portasse comunque lontano da quella terra pietrosa e da quelle case ammonticchiate come tanti presepi su un cocuzzolo delle Madonie. Da qui le insistenti telefonate a me, suo compare del cuore, e a tutti gli altri compari sparsi per il mondo, con l’insistente preghiera di trovare una sistemazione al figlio, nel cui curriculum si potevano leggere persino note di merito: si era diplomato con il massimo dei voti; parlicchiava inglese, francese e spagnolo; mostrava disponibilità a intraprendere l’attività di cameriere o di aiuto chef; avrebbe anche accettato un’assunzione stagionale; era munito di passaporto e patente di guida e dichiarava che, se necessario, sarebbe andato a lavorare pure su una nave da crociera o nei faraonici alberghi che, a Dubai o Abu Dhabi, si stagliano imperiosi ai confini di deserti roventi e implacabili.

 

Sinceramente – e lo dico senza strizzare l’occhio a un mieloso buonismo – il curriculum di Vincenzo me lo sono portato dietro per quasi due anni. E quando il padre mi telefonava, anche per dirmi che nel frattempo “il diplomato” si era pure fidanzato con Caterina, giuravo e spergiuravo che mai e poi mai mi sarei dimenticato di un problema che affliggeva così tanto il mio amico, il mio vecchio compagno di scuola, il mio compare degli anni giovanili e della comune epopea della miseria.

  

E l’occasione si è presentata finalmente l’altro giorno, alla fine di ottobre quando Francesco Piparo, uno chef palermitano molto bravo e molto conosciuto oltre i confini della Sicilia, è stato invitato dal più grosso centro enogastronomico di Bologna a tenere un master per giovani venuti fuori dagli istituti alberghieri e volenterosi di varcare la prima porticina di un eventuale posto di lavoro. Quando gli ho chiesto il favore, Piparo onestamente non se l’è fatto dire due volte. Mi ha garantito che avrebbe portato con sé Vincenzo e che avrebbe fatto di tutto per assicurargli una sistemazione a Bologna o in un qualsiasi altro ristorante della potente catena imprenditoriale.

 

“Compà, forse ce l’abbiamo fatta”. Ma il due novembre Carmelo non cede ai convenevoli. Vuole presentarmi Caterina

Confesso che non mi è sembrato vero. Raccolta la promessa dello chef, telefono a Carmelo col tono brioso e scanzonato di chi si è tolto finalmente un peso dalla coscienza: “Compà, forse ce l’abbiamo fatta”. Ma dall’altro capo del telefono il compare non sprizza, come si suole dire, allegria da tutti i pori. Ha piuttosto un tono mortizzo, ammosciato, tristanzuolo. Comunque gli do appuntamento per il giorno dei morti – ricorrenza per la quale, una volta l’anno, ci ritroviamo quasi tutti al paese per un dolore o per un ricordo – e attribuisco proprio alla commemorazione dei defunti il sottotono con cui Carmelo ha accolto quella che io ritenevo invece una bella, bellissima notizia.

 

Il due novembre, dopo la doverosa visita al cimitero e il fiore sulla tomba dei miei cari, busso puntuale alla porta di casa Mascalucia, sulla spianata di San Cataldo. E ad aprirmi la porta scende proprio lui, Carmelo. Non ha i toni della festa; e trovo rinsecchita pure la sua tradizionale vena d’ironia. L’affetto di sempre sopravvive, ci mancherebbe altro, ma stavolta Carmelo non cede ai convenevoli né alle smancerie tipiche di due amici che si ritrovano dopo tanto tempo. Ha solo fretta di portarmi su al primo piano. “Non parliamo di niente, poi ci pensiamo alle cose di lavoro”, mi dice subito, per troncare discorsi che io non avevo neppure cominciato. “Intanto voglio presentarti Caterina, la fidanzata di Vincenzo: è una brava ragazza, bella e brava. E’ figlia unica e suo nonno, che ormai vive solo, da vedovo e da pensionato, le ha messo a disposizione una casetta di due piani che si affaccia sulla scalinata di San Giovanni. Stiamo stringendo un po’ la cinghia per restaurarla in modo che, dopo il matrimonio, i ragazzi possano tranquillamente abitare lì”.

 

Carmelo mi illustra questi progetti lungo la ripida scala che dall’ingresso porta nel saloncino dove ci aspettano Vincenzo e Caterina, già promossi dal rango di fidanzati a quello di promessi sposi. Io, lì per lì, vorrei sollevare un’obiezione, manifestare una perplessità, mostrare un minimo di stupore. Ma capisco che nell’aria pende una sorpresa e preferisco mantenere il buon viso di circostanza. Rompo persino il ghiaccio con una zuccherosa banalità: “Allora, Vincenzo, non solo sei cresciuto ma sei già pronto per le nozze, per mettere su famiglia…”.

 

Il ragazzo ha un attimo di smarrimento. Chiede uno sguardo di incoraggiamento al padre e uno di complicità a Caterina; poi implora con gli occhi un mio cenno di misericordia e, dopo avere intravisto un segnale di benevolenza, comincia a spiccicare l’unico discorso che aveva voglia di fare. “Io glielo ho detto a mio padre di dire chiaramente come stanno le cose, ma lui non se l’è sentita”, premette Vincenzo, presentando per un pronto accomodo le sue scuse. “La verità è che io e la mia fidanzata abbiamo ottenuto il reddito di cittadinanza. Siamo in due e prendiamo più di mille e trecento euro al mese. Qui in paese la vita non è cara e noi abbiamo anche la casa che il nonno ha messo a disposizione di Caterina, quindi non pagheremo l’affitto. Sinceramente possiamo campare tranquilli. So che sembra male dirlo, ma che bisogno abbiamo di lavorare?”.

 

“Ma oggi il mondo non è tranquillo e con il vento che tira sarebbe onestamente un delitto lasciare il certo per l’incerto”

Già. E chi può dargli torto? Se Vincenzo seguisse lo chef Piparo e partisse per Bologna gli verrebbero meno tante comodità: alle poste non troverebbe più il suo assegno mensile, dovrebbe lasciare le braccia morbide e voluttuose della fidanzata, dovrebbe cercarsi lassù un posto dove dormire, dovrebbe vedersela con la fortuna, dovrebbe mettere nel conto anche qualche rischio, dovrebbe abituarsi a una vita da pendolare e rinviare chissà a quando il matrimonio al quale sembra tenere tanto. Chi glielo fa fare? Certo, lavorando e faticando potrebbe trovare un suo spazio, un suo futuro, una sua dimensione; potrebbe pure diventare uno chef famoso: come Cracco o Cannavacciuolo o Vissani o tutti quelli che si vedono in televisione; o, male che vada, come Piparo che la sua bella immagine se l’è già costruita e di sicuro per campare non insegue più le mille lire. Tutto vero, verissimo, anzi probabile. “Ma oggi – taglia corto Vincenzo – il mondo non è tranquillo e con il vento che tira sarebbe onestamente un delitto lasciare il certo per l’incerto”.

  

Parole sante. Ma se il reddito di cittadinanza dovesse di colpo finire? Con questa domanda pensavo – ma che ingenuo – di creare una breccia nel muro della resistenza; di istillare almeno un dubbio, un’inquietudine, una perplessità. Ma il diplomato, come lo chiama suo padre, con quella mano perennemente stretta tra le mani della fidanzata, non ha fatto neppure una piega. Mentre il vecchio Carmelo, probabilmente pizzicato da un piccolo rimorso, ha tentato di tamponare la ferita con il collaudato balsamo dell’amicizia, appena corretto da un goccio di ironia: “Se il reddito di cittadinanza non dovesse esserci più – ha sentenziato con un accento declamatorio, quasi tenorile – io tornerò a disturbare il mio amatissimo compare e gli chiederò di darmi ancora una volta una mano per aiutare Vincenzo che nel frattempo sarà già sposato e anche padre di figli”. E così dicendo ha aperto la credenza, ha preso la bottiglia di rosolio, ha riempito i quattro minuscoli bicchieri che risiedevano già al centro del tavolo e ha fatto un cerimonioso brindisi non si sa a che cosa: forse alla nostra imperitura ed eterna amicizia, forse al reddito di cittadinanza, forse a una grazia ricevuta, forse alla profonda Sicilia che vive e regna nei romanzi, nel cinematografo e nel cuore ardente di tutti noi siciliani.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.