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Perché non può essere il “contrasto di interessi” a debellare l'evasione fiscale

Luciano Capone

Pensare di sradicare il problema scaricando scontrini è una soluzione illusoria. Con una bufala di successo il governo sprecherà un pacco di soldi

Roma. Certi miti sono duri a morire, così quando si discute di evasione fiscale, soprattutto quando il confronto è televisivo, c’è sempre il tizio che propone la soluzione semplice e definitiva: il “contrasto di interessi”. “Per sradicare l’evasione basta consentire a tutti di detrarre le spese, così ognuno sarà incentivato a chiederà la ricevuta all’idraulico e alla parrucchiera”, dice il solito commentatore con aria intelligente, magari aggiungendo “come si fa negli Stati Uniti, dove l’evasione non esiste”. A quel punto in genere interviene un altro commentatore un po’ più esagitato che conclude, facendo il gesto delle manette: “Negli Stati Uniti li sbattono in galera”.

  

Quanto a quest’ultimo punto, quello del “carcere agli evasori”, uno non proprio tenero nei confronti degli evasori come l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco ricorda che sanzioni penali molto elevate possono addirittura “portare a un aumento dell’evasione”, come peraltro dimostra il caso italiano (dove le pene contro gli evasori esistono) in seguito al decreto “manette agli evasori” del 1982: “Gli uffici giudiziari furono intasati da un gran numero di denunce, con la conseguente impossibilità per i giudici di applicarle. Furono condannati pochi e l’evasione continuò come prima”.

   

Riguardo al “contrasto di interessi”, che dovrebbe trasformare i consumatori in un esercito di scaricatori di scontrini e segnalatori fiscali di massa in sostituzione dei controlli dell’amministrazione pubblica, c’è da dire che non esiste nulla del genere negli Stati Uniti (dove le detrazioni/deduzioni sono limitate e simili a quelle italiane), né in altri paesi. E per un motivo semplice: non funziona. È una soluzione illusoria, che potrebbe anche ridurre l’evasione ma solo al costo di ridurre il gettito complessivo dello stato. Perché un incentivo del genere produce due effetti opposti per l’erario. Da un lato, per favorire l’emersione del nero, lo sconto fiscale deve essere molto generoso in quanto l’evasione è sempre più conveniente di qualsiasi detrazione e un accordo tra cliente e venditore resta sempre possibile. Ma dall’altro lato, la detrazione verrebbe applicata in maniera generalizzata anche a tutte quelle transazioni economiche che vengono in chiaro, causando quindi una forte perdita di gettito. Così se la detrazione è bassa non fa emergere il nero, se invece è alta fa perdere troppo gettito.

  

E di questo ne è consapevole chi conosce la materia, a partire dal sottosegretario all’Economia Maria Cecilia Guerra, che ora sembra aver dimenticato i suoi studi. Per Vincenzo Visco il contrasto di interessi si “risolverebbe in una perdita netta per la collettività” (“Colpevoli evasioni”, Università Bocconi editore), come dimostrano casi concreti in cui il sistema è stato introdotto e poi abbandonato (Cipro, Bolivia, Turchia e Grecia). Secondo Raffaello Lupi, professore di Diritto tributario a Tor Vergata, “se generalizzato, il contrasto di interessi oltre a essere illogico sul piano della determinazione della ricchezza, darebbe luogo a un’enorme perdita di gettito” (“Evasione fiscale”, Castelvecchi editore). Della stessa opinione Dario Stevanato, professore di Diritto tributario all’Università di Trieste: “Per rendere più conveniente richiedere la fattura la percentuale di detrazione dovrebbe essere innalzata a un livello tale non solo da compensare l’Iva, ma da restringere i margini a disposizione del venditore”, ma questo produrrebbe “una perdita di gettito netta” (“Fondamenti di diritto tributario”, Le Monnier). Per Alessandro Santoro, professore di Scienza delle finanze alla Bicocca, bisogna “abbandonare l’illusione di scorciatoie come il contrasto di interessi”. Anche la Corte dei Conti nelle relazioni sull’evasione fiscale scrive che l’efficacia del contrasto di interessi è “una diffusa opinione che non trova riscontro nell’analisi scientifica, che da tempo ha avvertito degli effetti negativi che lo strumento presenta”. E persino il Mef, nel Rapporto sull’evasione fiscale, riconosce i limiti di uno strumento che comporta “un effetto negativo certo (la perdita di gettito) a fronte di un effetto positivo soltanto potenziale (l’emersione di base imponibile evasa)”.

   

Il governo ha deciso di ignorare queste banali evidenze teoriche ed empiriche, introducendo il cosiddetto “cashback”: una detrazione per chi paga con strumenti tracciabili (carte). Peraltro la strategia dell’esecutivo è profondamente contraddittoria perché mentre mette nuove detrazioni, contemporaneamente, le elimina per i redditi elevati (se le detrazioni servono contro l’evasione perché vengono tolte a chi ha maggiore capacità di spesa?). Ma soprattutto mostra tutti i suoi limiti quando si vanno a tirare i conti: nel Documento programmatico di bilancio appena approvato, le misure di contrasto all’evasione (reverse charge, stretta sulle compensazioni e sui carburanti) valgono 3,2 miliardi. Mentre il cashback riferito al 2020, che verrà pagato con le dichiarazioni dei redditi l’anno successivo, costerà 2,9 miliardi (somma pari al taglio del cuneo fiscale per il 2020). Circa tre miliardi in entrata, che poi escono in detrazioni. In pratica le due misure di contrasto all’evasione si contrasteranno a vicenda, annullandosi.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali