Frenare il mercato è una missione

Carlo Stagnaro

Ripudiare la concorrenza e tornare allo stato padrone. Un metodo

Che c’azzecca il governo con la concorrenza? Per comprendere dove voglia andare a parare la maggioranza gialloverde con l’Opa sul commissario europeo alla Concorrenza, bisogna guardare il suo approccio alla competition policy in ambito domestico. Spoiler: la concorrenza, più che un obiettivo da raggiungere, sembra percepita alla stregua di un mostro da esorcizzare. Lo si vede dai fascicoli aperti e da quelli che l’esecutivo si sforza di mantenere chiusi, ma anche dalla ingenua sincerità con cui si è espresso Luigi Di Maio, “fermare una serie di procedure vergognose contro l’Italia sugli aiuti di stato, che non ci permettono di aiutare le imprese”.

   

Eppure, di decisioni da prendere – o da cui astenersi – ce ne sono eccome. L’ultima, in ordine di tempo, è l’accordo tra Tim e Vodafone sulle torri per il 5G. Da un lato, si dovrà capire come verrà disciplinato l’accesso alle frequenze e che ruolo vorrà giocare la regolazione. Dall’altro, Tim è ormai un’azienda, se non proprio a trazione pubblica, quanto meno attenta ai desiderata governativi. L’ingresso della Cassa depositi e prestiti nel suo azionariato punta chiaramente verso un rientro nell’orbita statale. Peraltro, i nuovi investimenti incrociano il destino della rete e dell’altro operatore pubblico, Open Fiber. Insomma: concorrenza sì, ma solo nei limiti e alle condizioni stabilite di volta in volta dalla politica. Se il destino delle infrastrutture di telecomunicazioni contribuirà a determinare il nostro futuro, la maggior parte dei dossier sono rivolti al passato. Il caso Alitalia è la madre di tutte le tempeste anti concorrenziali: una compagnia decotta, beneficiaria di un aiuto di stato potenzialmente illegittimo (il prestito ponte), entrerà nel perimetro di un altro monopolista pubblico (le Ferrovie) attraverso un’operazione architettata e gestita dal governo.

  

La logica di fondo sul vettore di bandiera – piccolo e scalcagnato, purché “nostro” – è la medesima con cui i gialloverdi affrontano i servizi pubblici locali, oggetto di periodici richiami da parte della Commissione europea. I partiti della maggioranza sono compatti nell’opporsi alla contendibilità degli affidamenti, anche quando questo comporta plateali inefficienze se non disastri (citofonare Atac). La proposta di legge sull’acqua pubblica spinge questo atteggiamento all’estremo: essa sacrifica efficacia ed efficienza, investimenti e qualità ambientale, sull’altare della forma giuridica dei soggetti gestori del servizio idrico (la società di diritto pubblico). Non importa che non funzioni, purché non faccia profitti (traguardo, quest’ultimo, piuttosto facile da raggiungere).

  

Perfino il nuovo Garante della concorrenza, Roberto Rustichelli, espressione dell’attuale maggioranza, ha usato la sua visibilità per lanciare il messaggio che il problema non è la concorrenza ma “ben altro” (la competizione fiscale, cioè, in estrema sintesi, la partecipazione italiana al mercato interno dell’Unione europea). Se le prime impressioni dell’Antitrust italiano ci dicono qualcosa, è che la missione a Bruxelles non è la promozione della concorrenza, ma la distrazione dalla concorrenza. E’ come se i grandi driver di cambiamento – globalizzazione, tecnologia, pluralismo e diversità – potessero essere in qualche modo imbrigliati per mantenere la società il più possibile simile a com’era. Lo sforzo grillo-leghista di frenare l’evoluzione economica e sociale in ambiti tanto distanti come le concessioni balneari e le professioni intellettuali, il sistematico rinvio di atti dovuti come la liberalizzazione elettrica per tutelare (anche qui!) i presunti interessi di un soggetto pubblico (Acquirente unico, in questo caso), la revanche dello stato imprenditore, lanciano un messaggio univoco. Quando il governo chiede di pilotare la concorrenza in Europa, lo fa perché il pedale che spera di usare con maggiore generosità è quello del freno.

Di più su questi argomenti: