L'Agcom dà un colpo al nazionalismo telefonico su Tim

Renzo Rosati

L’autorità suggerisce che la guerra sullo scorporo della rete Telecom è stata inutile

Roma. Contrordine: la separazione da Tim della rete in fibra ottica non agevolerebbe la concorrenza per gli altri fornitori di servizi telefonici, e neppure offrirebbe vantaggi finanziari significativi alla stessa ex monopolista. Lo afferma l’Agcom, l’Autorità pubblica di controllo sulle comunicazioni, in un documento di oltre 400 pagine reso noto nel weekend, al termine di un’analisi durata in pratica da quando è scoppiata la guerra tra Vivendi (azionista al 23,9 per cento di Tim ma che dal 4 maggio 2018 ne ha perso il controllo), il fondo americano Elliott (che attualmente, assieme alla Cassa depositi e prestiti, esprime il cda dell’azienda e si muove in sintonia con il governo, fautore dello scorporo della rete) e l’esecutivo gialloverde.

    

Con un emendamento del M5s a novembre scorso il governo ha garantito incentivi tariffari alla rete, a danno di chi se ne servirà, con l’obiettivo di sottrarre definitivamente l’infrastruttura dal controllo di Tim e fonderla con Open Fiber, la concorrente messa in campo da Enel e Cdp. Le conclusioni di Agcom – “non vi sono impatti del progetto di separazione di Telecom Italia né sulla definizione del mercato rilevante, sia a livello merceologico sia a livello pratico, nonché sulla posizione di significativo potere di mercato della società” – danno torto un po’ a tutti: anche a Vivendi certo, che aveva proposto la scissione per fare cassa e resistere all’attacco di Elliott ma soprattutto per venire incontro al governo che a inizio 2018, sotto l’egida del Pd, aveva mosso la Cdp. La separazione faceva parte del piano industriale firmato dall’allora ad, oggi ex, Amos Genish. Ma soprattutto il parere contraddice piuttosto clamorosamente le ragioni politiche dell’esecutivo di allora, sostenute particolarmente dall’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e ancora più gli interessi imprenditoriali di Elliott, che fin dall’inizio ha puntato sullo spin-off per puntare sul ritorno di un investimento in Tim rivelatosi fin qui finanziariamente disastroso. Senza parlare della Cdp, che non solo ha obbligo per statuto di assumere quote azionarie con obiettivi di remunerazione ma è anche co-azionista di Open Fiber.

 

     

  

Probabilmente Elliott, Cdp e sovranisti governativi hanno ricevuto e dato garanzie di una futuribile fusione tra le due reti, magari con esborso a carico del Tesoro. Ma si tratterebbe di un esproprio (simile a quello tentato nel 2006 dal governo Prodi) molto costoso e a questo punto, proprio in base al parere dell’Agcom, neppure giustificato dalla necessità di tutelare la strategicità italiana della rete e la tutela della concorrenza. L’autorità di regolazione afferma anche che neppure Tim trae particolare guadagno dall’avere la rete, tranne ovviamente quello patrimoniale: infatti il titolo in Borsa continua a precipitare (ieri meno 2,8 per cento, quattro volte e mezzo il calo del listino principale, dopo avere aperto a meno otto), e da quando il controllo era di Vivendi la capitalizzazione è dimezzata. Sul parere dell’Agcom non mancano le interpretazioni “estensive”: per esempio che sarebbe sottinteso come il vantaggio per la concorrenza si avrebbe in caso di effettiva fusione con Open Fiber e creazione di un soggetto terzo al di sopra delle società di servizi, come Terna per l’elettricità e Snam per il gas (curiosamente nessuno ricorda invece la Rete ferroviaria, di proprietà delle Fs così come Trenitalia; eppure lì la concorrenza esiste). Ma è ancora l’Autorità a ricordare come al momento “Open Fiber non sia in grado di replicare le quote di mercato di Tim”, e dunque la prospettiva non c’è. La realtà è che mentre Vivendi cerca di riprendersi il controllo di Tim nell’assemblea del 29 marzo prossimo, al nazionalismo telefonico viene a mancare il supporto del regolatore. A meno che l’esecutivo non acceleri sullo spoil system dell’Agcom, i cui vertici scadono a luglio.

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