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Colpendo il terzo settore si rischia di imitare l'Europa meno avanzata

Luca Pesenti

Il premier Conte rimedia al pasticcio sull'Ires ma la sensazione è che almeno una parte della maggioranza prediliga un sistema di welfare che torna verso tonalità stataliste

Milano. L’incontro riparatore del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, con i rappresentanti del terzo settore chiude uno dei più imbarazzanti incidenti di percorso contenuti nella Legge di Bilancio 2019. Sul tavolo c’è la preannunciata disponibilità, manifestata dal governo, ad annullare con apposito decreto l’abrogazione della riduzione Ires di cui godono alcune tipologie di organizzazioni non profit (enti e istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza, istituti di istruzione e ricerca).

 

La notizia è naturalmente positiva. Eppure, resta la sensazione di un lapsus freudiano più che di una banale incomprensione. Almeno una parte della maggioranza di governo sembra infatti immaginare un sistema di welfare che torna ad assumere tonalità stataliste. Il modello di reddito di cittadinanza che giorno dopo giorno sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) profilarsi ha da questo punto di vista le sembianze di una prova più che di un indizio: si presenta infatti come una misura centralista e percorsa da pericolose curvature assistenzialiste, in cui ogni richiamo in senso sussidiario (dal ruolo dei Comuni a quello, per l’appunto, del terzo settore) appare sbiadito o del tutto assente. Per finanziarlo, dunque, qualcuno ha pensato di azzoppare proprio quel mondo non profit che soprattutto negli anni della crisi si è caricato sulle spalle in modo quasi esclusivo una povertà che nel frattempo è quasi raddoppiata.

 

 

Più stato e meno società, insomma. Via gli sgravi fiscali per finanziare l’assistenzialismo di stato. Una linea coerente con la logica della disintermediazione di cui si sono fatti paladini in particolare gli esponenti del M5s. Ma che nasconde non solo le evidenti controindicazioni già segnalate da molti commentatori (togliere risorse al settore su cui si appoggia una parte rilevante del nostro sistema di welfare non è evidentemente un’idea particolarmente brillante, soprattutto se si spostano risorse per finanziare un reddito di cittadinanza che non presenta molte possibilità di rivelarsi efficace sul piano pratico), ma anche un perfido paradosso. Una scelta anti sussidiaria e contraria allo sviluppo dell’economia sociale è esattamente quanto realizzato in nome dell’odiata austerity in molti paesi dell’Unione europea.

 

Un articolo del 2016 pubblicato sull’International Journal of Sociology and Social Policy da un gruppo di studiosi segnalava l’esistenza di una crescente pressione sul terzo settore, a causa delle politiche di austerità introdotte in vari paesi. Gli effetti peggiori si sono registrati in Olanda e soprattutto in Francia e Spagna, dove molte organizzazioni non profit sono state costrette a chiudere a causa del ridimensionamento delle facilitazioni concesse dallo stato. Si tratta per altro di processi che la crisi economica ha soltanto accelerato, come mostra un’ampia ricerca capitanata dal più influente opinion leader internazionale in argomento (Lester Salamon) insieme a un pool di ricercatori (“The Third Sector as a Renewable Resource for Europe”, Palgrave MacMillan 2018). Stretto dentro nella morsa tra stato e mercato, il posto riservato al terzo settore e alla sua capacità di produrre un’economia di tipo sociale e relazione (o civile, direbbe Stefano Zamagni) si è ovunque ridotto. Costringendo gli attori di questo settore sui generis a una sempre più spinta marginalizzazione dai territori del welfare (come avvenuto nei paesi dell'Europa del nord), costringendoli dentro i sentieri di una crescente burocratizzazione oppure sottoponendoli alle medesime condizioni richieste dai provider for profit.

 

C’è un paese che in questi anni ha, almeno parzialmente, fatto eccezione: la Germania. Le ricerche dicono che il modello sussidiario di stretta partnership tra pubblico e terzo settore sembra avere subito scossoni meno violenti, permettendo una relativa stabilità ai soggetti non profit anche nella lunga fase di crisi depressiva dell’ultimo decennio. E’ il modello storicamente più vicino, pur con le dovute differenze, a quello italiano. Tenerne conto non sarebbe male.

 

Luca Pesenti è docente di Sistemi di welfare comparati Università Cattolica

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