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Perché vista da nord-est l'Europa è un principio non negoziabile

Anna Mareschi Danieli*

Gli indici di crescita a inclusione dicono che condividiamo la ricchezza, uscire dal blocco vuol dire arretrare 

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Pubblichiamo il discorso che la presidente di Confindustria Udine tiene oggi al roadshow nazionale dell’associazione in Friùli-Venezia Giulia. Anna Mareschi Danieli è dirigente nel team amministrazione e finanza della Danieli & C. Officine Meccaniche Spa di Buttrio


  

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Robert Kennedy, in un famosissimo discorso tenuto all’Università del Kansas nel 1968, disse che il pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Il pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non misura la nostra arguzia, il nostro coraggio, la nostra saggezza e nemmeno la nostra conoscenza.

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Negli ultimi cinquant’anni, abbiamo in teoria metabolizzato questi concetti, ma facciamo ancora fatica ad applicarli. Diciamo che la consapevolezza è cresciuta, non altrettanto il sentiment dell’urgenza. E, con esso, l’impeto necessario a tradurre la visione in azione. L’ultimo vertice di Davos del gennaio di quest’anno si è aperto con un documento intitolato “The Inclusive Development Index 2018”. L’Indice di sviluppo inclusivo (Idi) si fonda su tre pilastri fondamentali: crescita e sviluppo; inclusione, equità intergenerazionale e sostenibilità (delle risorse naturali e finanziarie). La classifica dei paesi in relazione a questo indice vede la Norvegia in testa e i primi otto paesi sono tutti europei. Tra i primi 22, di nuovo, 18 sono nazioni del vecchio continente. Gli Stati Uniti occupano la ventitreesima piazza. L’Italia si colloca al ventisettesimo posto. Cosa ci dice questo documento? L’Idi testimonia che l’Europa – bersaglio di tutte le critiche possibili di questi tempi – è già la culla di tutto questo. Abbiamo perciò un grande vantaggio competitivo (prima di tutto culturale) che è anche una straordinaria opportunità! Ci dice che le economie occidentali, ma soprattutto l’Europa, hanno maturato una nuova condivisione della “ricchezza”. Ci preoccupiamo non soltanto di pil pro-capite, dunque, ma anche di redistribuzione della ricchezza e del reddito, delle aspettative di vita e di salute, del tasso di povertà, dell’equità intergenerazionale, delle emissioni di carbone e della produttività del lavoro.

  

Per inciso, quando parliamo di produttività ci riferiamo solitamente alla capacità di un sistema di crescere, di creare occupazione e sviluppo. Ma parlare di produttività significa anche parlare di: variabili demografiche (tasso di fecondità, invecchiamento della popolazione, incidenza della popolazione straniera, popolazione attiva, forza lavoro, tasso di inattività, livello di occupazione e disoccupazione, ecc.), variabili istituzionali (mercato del lavoro, peso della contrattazione e tasso di sindacalizzazione, concorrenza dei mercati, welfare e workfare, efficienza della Pubblica amministrazione e intervento pubblico in economia, sistema fiscale, coesione e capitale sociale, cultura dell’Imprenditorialità, sviluppo della logistica e dei sistemi di trasporto, stato della giustizia civile, presenza dell’economia sommersa, ecc.), variabili tecnologiche (ricerca e innovazione, propensione all’internazionalizzazione, qualità dell’istruzione e della formazione, infrastrutturazione materiale e immateriale, ecc.). Una questione di qualità, dunque, non solo di quantità. Una questione di qualità che influenza inevitabilmente la quantità. Analizzando i fattori sui quali si basa l’Idi, dunque, si evince che le imprese hanno un ruolo naturale da protagoniste in tale scenario. Il che ci pone di fronte a un dovere, prima che a un diritto. Esiste un dovere più che mai attuale nelle economie occidentali (non si ricada però nel pregiudizio che il creare ricchezza meriti meno apprezzamento del redistribuirla!): riversare i benefici, da parte di chi li ha ricevuti, nel sistema. Si pensi al welfare aziendale e a quello territoriale. Tanti imprenditori stanno andando in questa direzione. Molti lo fanno sottovoce. Molti altri in totale silenzio. Diciamolo! E diciamolo con orgoglio! E aggiungiamo un altro concetto: siamo convinti che le risorse umane siano il fattore vincente delle nostre imprese. E la volontà di guardare al valore delle persone è già presente nel nostro Dna. Dobbiamo farne un impegno costante e ancor più condiviso.

   

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In una recente intervista al presidente di Confindustria Vincenzo Boccia gli è stata rivolta una domanda precisa: la Cgil – era il nocciolo del quesito – chiede salari più alti come in Germania. “Lo condividiamo”. Così ha risposto il presidente Boccia. Ecco, lo condividiamo, non abbiamo paura a dirlo. Metteteci nelle condizioni di potere realizzare questo progresso, cerchiamo insieme di valorizzare la produttività. Un successo di questo tipo è un successo di tutti non solo del singolo o della singola impresa o dei singoli lavoratori. Lo possiamo fare noi che siamo in occidente. Lo dobbiamo fare noi che siamo in Europa. Lo può sostenere l’Italia, che per cultura e civiltà ha le carte in regola per parlare di progresso, non soltanto di crescita.  

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Come imprenditori, siamo disposti a prenderci impegni, siamo abituati a investire e a intraprendere. Il manifesto di Confindustria sulla Responsabilità sociale per l’Industria 4.0 testimonia quanto questo tema sia diventato strategico per noi all’interno delle politiche industriali. La Rsi – intesa come elemento di innovazione che porta alla condivisione del valore – rappresenta un nuovo fattore di competitività in grado di creare valore per tutti: per l’impresa, per gli stakeholder e per i territori in cui l’impresa opera. Questo nuovo paradigma impone però un salto culturale, un nuovo stile imprenditoriale. E’ una necessità di cui noi imprenditori per primi siamo consapevoli. Crescere è anche un processo qualitativo, mai solo quantitativo. La globalizzazione e le nuove tecnologie digitali ci spingono a innovare. Ci impongono di ripensare l’impresa, tenendo sempre presente che l’intelligenza umana ha la marcia in più della creatività. La variabile decisiva per le nostre imprese è la produttività. E nell’andamento della produttività c’è la causa della lenta crescita italiana. Il cuore del problema sta qui: si chiama produttività e chiama in causa tutti. La produttività, infatti, è il frutto delle azioni e dei comportamenti dell’intero paese. Le relazioni industriali devono contribuire in maniera decisiva alla crescita della ricchezza e del benessere delle imprese e delle persone. Devono diventare rapporti tra soggetti consapevoli che condividono gli obiettivi di sviluppo delle aziende e del paese. Noi vogliamo una più alta produttività per pagare salari migliori. Dico vogliamo, non vorremmo… perché noi dobbiamo e non potremmo. Vogliamo (non vorremmo) aumentare gli stipendi, ridurre gli orari di lavoro, costruire ambienti di lavoro adatti all’uomo (perché i luoghi ostili li lasceremo ai robot). I nostri imprenditori, piccoli, medi e grandi, queste cose le sanno. Si misurano con la realtà delle cose e sono abituati a fare. Sono meno inclini, invece, ad assumere consapevolezza del proprio ruolo sociale. Le imprese, piccole, medie e grandi, sono il fulcro della nostra economia. Noi siamo la seconda manifattura in Europa! Sostenibilità e innovazione sono i pilastri dello sviluppo economico del paese. Le imprese sono il motore di questo cambiamento. Ma è l’intero paese deve sostenere questa spinta propulsiva. Dobbiamo assolutamente metterci nelle condizioni di poter raggiungere questi obiettivi. Noi imprenditori facciamo la nostra parte perché crediamo che la sostenibilità non è un lusso da considerare una volta risolti i problemi impellenti della crescita, ma è parte significativa della soluzione.

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