Un display con i tassi di cambio della lira turca con dollaro ed euro a fine maggio in una strada di Istanbul (foto LaPresse)

Che disastro quel sovranismo

Stefano Cingolani

Brutte notizie per chi vuole uscire dall’euro e si sollazza con la finanza creativa. La lira turca ha perso in un anno il 35 per cento del suo valore e neppure l’autarchico Erdogan si sente tanto bene

“La storia di una moneta riflette la storia civile oltre che la storia economica di un popolo”

(Carlo Maria Cipolla, “Le avventure della lira”)


     

Concluse le consultazioni con le autorità, il 30 marzo il consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale emette un lungo comunicato accompagnato da una tabella con le cifre fondamentali e un dettagliato rapporto. La sentenza è netta: l’economia turca è surriscaldata e ha bisogno di una doccia fredda. La lira, già in discesa da molti mesi, scivola giù come su un piano inclinato. Si grida al complotto. Come in Grecia, come in Italia. Eppure, la lira è sovrana, anzi, di più, è sultana; l’euro non è nemmeno all’orizzonte, tanto meno l’austerità. Il paese è guidato da un autocrate eletto democraticamente, il governo spende in consumi e investimenti, con un doppio deficit (nel bilancio pubblico e nella bilancia dei pagamenti). Sembra che John Maynard Keynes sia andato a svernare sul Bosforo. Insomma, ci sono tutte le condizioni che i guru gialloverdi e i loro capi politici in Italia considerano ideali.

 

Molti già vedono arrivare gli ispettori del Fmi. Per la grande crisi del 2001, da Washington mandarono Carlo Cottarelli

In un anno la valuta ha perso il 35 per cento, ma solo nell’ultimo mese è precipitata del 19 per cento. Anche il neo-sultano ha cominciato a preoccuparsi seriamente, ha lanciato l’allarme invitando i veri patrioti a vendere euro per riempirsi di lire memore del vecchio detto che la moneta cattiva scaccia quella buona, e ha anticipate le elezioni di un anno e mezzo (si terranno il 24 di questo mese unificando il voto legislativo e quello presidenziale). E’ una gara contro il tempo per farsi rieleggere prima che le cose precipitino e scatti davvero l’austerità. Intanto, Erdogan, fautore della politica al primo posto e dei tecnici al posto loro (cioè nel retrobottega), dopo averlo strapazzato pubblicamente, ha chiesto aiuto al governatore della Banca centrale. E Durmus Yilmaz ha agito come tutti i banchieri centrali nelle sue condizioni: ha rialzato i tassi d’interesse, addirittura di tre punti percentuali in un sol colpo, arrivando al 16,5 per cento. La brusca frenata nei prossimi mesi si scaricherà sui consumi, sugli investimenti e sulla produzione. Il prodotto lordo che è cresciuto di sette punti percentuali l’anno scorso, se tutto va bene dovrebbe salire del 4,4 per cento, ma le stime del Fmi prescindono dalla stretta. Le conseguenze non si faranno sentire solo in Turchia. Tremano le banche spagnole che hanno investito moltissimo sul futuro economico dell’antica Porta. Non parliamo di quelle tedesche.

 

Molti già vedono arrivare gli ispettori del Fondo monetario, i medici della peste, con le loro ricette che curano la malattia e stroncano il paziente. E c’è chi ricorda la grande crisi del 2001, quando da Washington mandarono Carlo Cottarelli. Il suo ritratto campeggiava sui muri di Istanbul riempito di epiteti che solo i turchi potevamo leggere, ma tutti gli altri capivano lo stesso. Era l’anno in cui un pacchetto di sigarette costava 90 mila lire.

 

A mettere nei guai la valuta oggi è certamente la politica di sostegno alla crescita aumentando la spesa pubblica, indebitandosi fortemente con l’estero e creando inflazione. Ma ha fatto da detonatore la rivalutazione del dollaro che ha messo in difficoltà molti paesi emergenti (si pensi all’Argentina). Una moneta sovrana, anzi sovranissima, contro altre monete sovrane. Fino al 1971 erano legate in modo più o meno flessibile al biglietto verde, il quale a sua volta era ancorato all’oro. Poi, liberi tutti. Per ricreare un’area di stabilità, i paesi europei hanno introdotto l’euro. Attaccato spesso dall’esterno, oggi appare minato dall’interno. Ma fuori, come abbiamo visto, non c’è l’Eden; fuori c’è la legge di natura.

 

Crisi, inflazione, svalutazioni, tempeste finanziarie, le contorsioni della lira turca assomigliano alle disavventure di un’altra lira

Crisi ricorrenti, inflazione, svalutazioni, tempeste finanziarie, le contorsioni della lira turca assomigliano alle disavventure di un’altra lira, quella italiana, quando ancora esisteva ed era sovrana. Almeno nella forma perché in realtà questa sovranità è stata limitata fin dal suo debutto in quanto valuta dell’Italia unita. Non si tratta di una mera rievocazione; al contrario, la storia volente o nolente fa da maestra. Luigi Zingales sostiene che il grande sbaglio di Romano Prodi fu aderire all’euro senza prima aver rinegoziato il debito pubblico e quello pensionistico. Lo stesso errore commesso dal Piemonte quando introdusse la nuova lira italiana. Ma fu proprio così? Nel caso di Prodi chi partecipò alle trattative sostiene che l’unica strada era ridurre preventivamente inflazione e debito, cosa che accadde anche grazie alla rigorosa politica della Banca d’Italia, alle privatizzazioni, alla tassa temporanea per l’euro.

 

Quanto al Regno d’Italia, Zingales cita un articolo americano. Ma fior di cervelli italiani hanno studiato la questione con maggior precisione. Gino Luzzatto nella sua storia dell’economia italiana dal 1861 al 1894 scrive che al momento dell’unificazione il debito italiano ammontava a 2 miliardi 446 milioni di lire, la stragrande maggioranza, cioè un miliardo e 482 milioni, faceva capo al Regno di Sardegna il quale non poteva rinnegare i propri impegni assunti non solo con i sudditi, ma con grandi banchieri esteri (i Rothschild soprattutto) i quali avevano finanziato prima le ferrovie, poi la guerra d’Indipendenza. Il Regno delle Due Sicilie aveva un debito pubblico basso (770 milioni) anche perché non aveva fatto molto, a differenza dal Piemonte, per sviluppare l’industria e le infrastrutture. Rinnegare il proprio debito significa far fallimento. E non sarebbe stata certo una buona partenza per il nuovo Regno d’Italia, così come non lo sarebbe adesso per il nuovo governo italiano. Eppure questo è il filo rosso che tiene insieme Lega e Movimento 5 stelle.

 

Circola l’idea di ridenominare una parte del debito in una nuova valuta che non sia un mero ritorno alla lira, ma una sorta di seconda moneta

Circola l’idea di ridenominare una parte del debito in una nuova valuta che non sia un mero ritorno alla lira, ma una sorta di seconda moneta. Zingales ha parlato di un euro B che comprenda i paesi meridionali. Difficile che ci stia Madrid: il nuovo primo ministro, il socialista Sanchez, ha ribadito che vuole restare nell’euro e se non ci sta la Spagna non ci sta nemmeno il Portogallo. Quanto alla Grecia, dopo il salvataggio e tutte le amare medicine ingoiate, vai a convincerla che tutto è stato inutile. L’euro B, dunque, non sarebbe che il ritorno alla lira. Molti, a cominciare da Paolo Savona, ritengono che ci si arriverà comunque, per questo bisogna avere una via d’uscita (il mitico piano B). I gialloverdi evocano chiaramente l’idea di una doppia circolazione, o meglio di un “corso forzoso”, proprio come nel 1866. Anche allora, del resto, il paese aveva provato a far parte a pieno titolo della Unione monetaria latina.

 

E’ questo, dunque, che aveva in mente Giuseppe Conte quando ha detto a Montecitorio che intende rinegoziare il debito in Europa? Certo è che il governo ha dei bei grattacapi. Di qui alla fine della legislatura bisognerà rimborsare titoli di stato per ben mille miliardi di euro. A condizioni quasi certamente peggiori di quelle garantite in questi anni dalla guida di Mario Draghi alla Banca centrale europea. L’aumento dello spread, cioè la differenza con i Bund tedeschi (difficile che scenda sotto quota duecento, cioè due punti percentuali) è già un segnale d’allarme. La fine del Quantitative easing a partire dall’autunno porterà rischi anche maggiori. La Bce non venderà i titoli di stato italiani che ha in pancia (poco più di 341 miliardi di euro), magari li smaltirà lentamente, ma in ogni caso l’ombrello si chiude. E l’Italia andrà nuda al mercato del debito.

 

Di proposte per un “taglio netto” ne sono circolate molte. Lucrezia Reichlin ha parlato di una riduzione del 40 per cento (e anche per questo i pentastellati avevano pensato anche a lei per un posto chiave nel governo). Angelo Guglielmi di Mediobanca securities (oggi in predicato di diventare direttore generale del Tesoro) ha presentato diversi studi (uno in base al quale dopo uno scossone iniziale l’Italia alla fine ci guadagna). Savona batte da anni sull’idea di utilizzare l’enorme patrimonio immobiliare dello stato, collocandolo in un fondo presso la Cassa depositi e prestiti. Alberto Quadrio Curzio e Fulvio Coltorti, per sostenere gli investimenti senza fare nuovo debito, hanno pensato di ricorrere anche alle riserve auree presso la Banca d’Italia (2.451 tonnellate, una delle quantità più alte al mondo, la quarto posto dopo la Fed americana, la Bundesbank e il Fondo monetario internazionale, per un valore di 87 miliardi di euro). Pierangelo Dacrema ha pubblicato un libro, “La buona moneta”, nel quale sembra aver trovato la pietra filosofale: pagare a scadenza non in euro, ma con una nuova moneta italiana. Lo stato non dovrebbe più emettere nuovi titoli per rimpiazzare i vecchi, “si limiterebbe tramite la Banca centrale nazionale a stampare moneta”. Già; stampare moneta, cioè fare inflazione, come l’Italia prima di Maastricht alla quale vogliono tornare i gialloverdi (lo hanno scritto papale papale nel contratto di governo). Ma emettere biglietti di banca per ridurre il valore della moneta non è esattamente buona moneta. Per il risparmiatore, anzi, sarebbe un vero esproprio perché verrebbe pagato in valuta scadente lo stesso titolo che ha acquistato in valuta forte. Qualcuno deve pagare, o i risparmiatori o i contribuenti, non ci sono pasti gratis. Per onestà, bisogna dirlo.

 

Ma torniamo alle disavventure della lira nel periodo post-unitario e al corso forzoso. Dal 1862 al 1865, scrive ancora Luzzatto, “il disavanzo diventava una malattia cronica”, con le imposte non si riusciva mai a coprire le spese e aumentavano i prestiti dall’estero. Già allora si disse che “l’Italia è stata fatta con il capitale straniero”, prima anglo-francese, poi tedesco negli anni 80 quando la sinistra storica aderì alla Triplice alleanza. Debito, finanza, politica estera sono indissolubilmente intrecciati. Allora come oggi. E la lira, da questo punto di vista, non è mai stata sovrana. Nel 1866 dopo che i titoli di stato venduti a Londra e Parigi cominciarono a crollare e non era più possibile sostenere il cambio, il governo decise di bloccare la convertibilità della valuta.

 

Spiega Carlo Maria Cipolla: “Il sistema monetario italiano entrò in regime di corso forzoso, e da allora non ne uscì sostanzialmente più, eccezion fatta per gli inizi del secolo XX”. La Prima guerra mondiale scassa di nuovo tutti gli equilibri, l’inflazione postbellica abbassa di cinque volte il valore della moneta. Per non affogare si cerca una boa. Mussolini rivaluta la lira rispetto alla sterlina (la battaglia per quota 90) allo scopo di garantirsi i prestiti delle banche anglo-americane. Ma con una manovra forzosa ed eccessiva mette a terra l’industria. Nel 1936, l’anno della campagna d’Etiopia e dell’impero, la lira viene allineata al dollaro. Nel 1938 ci volevano 21 lire per acquistare un grammo d’oro, nel 1928 erano 12, nel 1914 appena 3,48.

 

La valuta italiana è rimasta stabile e forte solo per un periodo breve quanto felice, dal 1948 fino al 1961, quando il paese cresceva dell’8 per cento l’anno. Il miracolo economico venne sostenuto da una lira solida e relativamente forte (Donato Menichella governatore della Banca d’Italia vinse anche un premio, l’oscar per la migliore moneta). Non è la svalutazione, dunque, ad alimentare lo sviluppo. Talvolta può accadere, sia chiaro, ma è una droga che dura poco se non innesca un cambio di marcia nell’utilizzo dei fattori della produzione. Dagli anni 70 in poi, la lira torna ad essere “un fantasma, ma un fantasma con i piedi di carta” come dice Cipolla.

 

Debito, finanza, politica estera indissolubilmente intrecciati. Non è la svalutazione ad alimentare lo sviluppo: è una droga che dura poco

Per spiegare il piano inclinato che porterà al crollo definitivo del 1992, bisogna considerare i cambiamenti enormi avvenuti nel frattempo. In mezzo c’è il 1971, la fine del sistema di Bretton Woods, la libera fluttuazione del dollaro e con esso di tutte le monete. E ci sono due crisi petrolifere. Ma c’è anche il continuo allargarsi dei deficit pubblici e una inflazione senza controllo. Il disavanzo diventa di nuovo “malattia cronica” come cent’anni prima. E nel 1976 interviene il Fondo monetario internazionale, imponendo lacrime e sangue. L’Italia era andata a lezione da Mefistofele che nel “Faust” di Goethe consigliava all’Imperatore: “Se manca moneta basta scavare un po’”. Lo scrisse Guido Carli nelle sue memorie con chiari accenti autocritici, lui che stampò a lungo moneta come governatore della Banca centrale e fece debito come ministro del Tesoro.

 

Negli anni 80 sotto la pressione dell’America reaganiana anche l’Italia è costretta a combattere l’inflazione. La lira sovrana viene messa alla frusta dal dollaro e si rivaluta grazie a un brusco aumento dei tassi d’interesse. Ma così sale anche il debito e in modo forsennato. La spiegazione che va per la maggiore tra gli ideologi euroscettici è la seguente: è colpa del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia che obbliga a coprire il debito emettendo titoli pubblici ai prezzi di mercato perché non è più possibile costringere la Banca centrale e le banche commerciali ad assorbire quelli invenduti, come avveniva prima. Ma comprare titoli è stampare moneta, quindi significa assecondare ancora e sempre Mefistofele.

 

E adesso? Luigi Di Maio promette che dirà dei no alla Ue sul deficit. Conte annuncia di ridiscutere il debito. Savona viviseziona in punta di dottrina il trattato di Maastricht. Giovanni Tria vuole aumentare la spesa (per gli investimenti, ça va sans dire). Angela Merkel congiunge le dita come sempre prima di prepararsi alle sue infinite maratone negoziali. La finanza creativa si sollazza. E si torna all’oro, al barbarico relitto disprezzato da Keynes che faceva i soldi giocando in Borsa. Anni fa alcuni parlamentari pentastellati si recarono alla Banca d’Italia per verificare se davvero nei suoi forzieri c’era l’oro della patria (la proprietà è della Banca centrale che lo considera “un presidio di sicurezza”). Il governatore Ignazio Visco li ricevette e li fece accompagnare nell’immenso deposito sotterraneo dove sono custodite le riserve auree (la maggior parte, perché un’altra fetta è a Fort Knox negli Stati Uniti e una piccola quota depositata presso la Bce). Verificato che fosse oro vero, toccati i lingotti lucenti, se ne andarono. Ma da allora alcuni di loro hanno un chiodo fisso: perché non usare l’oro per sostenere una nuova lira? Non basterà certo, ma intanto… Un sogno, poi una speranza, e se adesso diventasse un progetto concreto?

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