Vincent Bolloré (foto LaPresse)

Imperi & imperatori

Ugo Bertone

Gli abili tessitori Bolloré e Sorrell uniti dall’egotismo e dal declino della pubblicità off line

Milano. Il terremoto che sta sconvolgendo il mondo della pubblicità ha preso il via nello scorso week end quando Martin Sorrell, ha dato le dimissioni da Wpp, la premiata Wire & Plastic Products da lui trasformata in 33 anni da piccola fabbrica di cestini, a leader mondiale della pubblicità. La ragione? Una spiegazione ufficiale per ora non c’è. Il monarca, offeso e arrabbiato, tace, alimentando così le voci sulla sua possibile rivincita, anzi, vendetta.

 

Di tutt’altro tenore la reazione di Vincent Bolloré, messo ieri sotto accusa dai soci di Vivendi per aver venduto lo scorso luglio il 60 per cento di Havas, altro colosso dell’advertising già sotto il controllo dell’azienda di famiglia, a Vivendi che lui governa con poco più del 26 per cento del capitale. Un cadeau costoso, che ha reso alle casse del finanziere 2,3 miliardi di euro ma che finora si è rivelato un ben magro affare per gli altri azionisti. Invece delle sinergie promesse tra il gruppo media e l’ammiraglia della pubblicità, è arrivato subito dopo un profit warning tanto inatteso quanto violento: meno 34 per cento l’utile netto e la revisione al ribasso delle previsioni di crescita.

 

Non può stupire, di fronte a questa performance negativa che ha contribuito assieme a Telecom Italia a comprimere l’andamento di Vivendi in Borsa (meno 7 per cento da inizio anno), il malumore dei soci. Ma la risposta di Bolloré è stata degna di un grande Maresciallo di Francia, se non di Luigi XIV: ha deciso di cedere la corona di Vivendi al figlio Yannick, che nello scorso agosto, già alla testa di Havas, aveva garantito che “l’operazione avrebbe garantito la creazione di valore per azionisti e dipendenti, con particolare riferimento ai nostri migliori talenti”. Non guasta di sicuro il fatto che Yannick sia stato probabilmente il primo sostenitore di Emmanuel Macron, così come il padre lo fu di Nicolas Sarkozy.

 

“E’ ora di fare posto a una generazione più giovane – ha detto nel corso dell’assemblea degli azionisti ieri a Parigi il finanziere brétone aggiungendo che – non sarò in carica per cinquanta anni”. Anzi, ha ribadito la data della successione ai vertici del gruppo: il 2022, l’anno del bicentenario del gruppo. Insomma, Vivendi c’est moi. Mica tanto diversa, del resto, la concezione della governance da parte di Sorrell, una leggenda nella storia della pubblicità che da sempre che ha distribuito con il contagocce le informazioni sul gruppo, garantendosi uno stipendio da Guinness dei primati. Fino allo scorso 4 aprile quando i venti baronetti, pardon i venti azionisti principali di Wpp, membri del board, hanno sfidato il suo potere annunciando di aver assunto uno studio legale indipendente per indagare sulle eventuali malefatte sulla base delle accuse in arrivo da una “gola profonda” che ha avuto il coraggio di infrangere il potere del boss. Sembrava l’ennesima tempesta destinata solo a sfiorare sir Martin, l’uomo che è riuscito a conquistare buona parte dei grandi nomi della pubblicità sulle due rive dell’Atlantico, da J Walter Thompson ad Ogilvy & Mather a Group M e a Young Rubicam, per citare qualche nome.

 

Al contrario, sabato scorso, Sorrell ha ammainato la bandiera, lasciando gli eredi a dipanare un gomitolo inestricabile e/o a studiare la vendetta. In questi 33 anni Sorrell, ex manager di Saatchi & Saatchi (i consiglieri di Margaret Thatcher) ha rivoluzionato il settore, intuendo che la formula del successo consisteva nel combinare la forza d’urto delle grandi agenzie che curano l’acquisto degli spazi pubblicitari sui media con l’attività di pubbliche relazioni (assai facilitata dalla forza del denaro), alla presenza nei servizi digitali, l’ultimo pilastro dell’impero. “Mi ha dato del dinosauro – ha detto John Hegarthy, uno dei creativi più celebri – quando gli ho spiegato che non intendevo basare il mio lavoro solo sui logaritmi”. Altri, come John Ogilvy, sono stati meno gentili: “E’ stato solo un’odiosa little shit”. Ma tutti gli devono riconoscere il miracolo di aver creato da zero un colosso che però non aveva fatto i conti con Facebook e Google. Sotto la pressione dei colossi digitali che non si servono di agenzie esterne, i profitti hanno preso la via del ribasso (meno 33 per in un anno). Ancor più grave, i grandi inserzionisti (Nestlè, Unilever, Procter & Gamble) hanno ridotto gli investimenti nell’advertising tradizionale a vantaggio del social media. P&G, ad esempio, ha tagliato la spesa negli ultimi anni per 750 milioni di sterline, tagliando gli investimenti a sole 2.500 agenzie contro le 6 mila dei tempi buoni. Ma la moltiplicazione dei centri di spesa a cui indirizzare i grandi clienti è stata una delle grandi specialità di Sorrell, abilissimo nel creare una grande rete in cui sapeva muoversi solo lui.

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