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Contraddizioni del global-protezionismo

Alberto Brambilla

La “collaborazione” invocata da Trump è smentita dalle scaramucce valutarie

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Roma. Il debutto di Donald Trump ha suscitato una reazione modesta dalla platea del World Economic Forum a Davos. Ha strappato qualche applauso ma molti tra i 1.500 presenti tenevano le mani ferme, trattenendo il giudizio. Mentre il dibattito politico si è polarizzato tra “protezionisti” e “globalizzatori”, il presidente degli Stati Uniti ha cercato di trovare un equilibrio, temperando la sua agenda nazionalista con rassicurazioni al pubblico globalista, per spiegare che la visione protezionistica non significa isolazionismo americano (“America First non vuol dire America Alone”). E affermando che gli Stati Uniti sono disposti a cooperare per accordi bilaterali, magari recuperando con questa formula i contenuti del trattato di libero scambio della regione Asia-Pacifico.

 

“Come presidente americano metterò sempre l’America al primo posto, allo stesso modo gli altri leader dovrebbero mettere i loro paesi al primo posto” e ha aggiunto la richiesta di “rafforzare le regole degli scambi per assicurare l’integrità di un sistema commerciale giusto che funzioni non solo per gli Stati Uniti ma anche per tutte le altre nazioni”. L’avviso è diretto all’Europa, mentre la minaccia alla Cina. Non che a Francia e Germania servano lezioni di difesa degli interessi nazionali. All’apertura del forum sulle Alpi svizzere, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno invocato “cooperazione” e “multilateralismo” ma sono anche loro portatori di una strategia ibrida, tra globalizzazione e protezione.

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Berlino s’oppose al trattato di libero scambio Europa-Stati Uniti. Parigi, a prescindere dall’inquilino dell’Eliseo, è più incline a investire in altri paesi che ad aprirsi agli investimenti altrui. Il minimo comune denominatore tra le due sponde dell’Atlantico è la necessità di sostituire gli stimoli monetari plueriennali prodotti per uscire dalla crisi con tutti i mezzi per prolungare il momento di crescita economica del blocco euro-americano. Gli Stati Uniti premono al massimo su tutti i pedali, elencati nel Trump-Show davosiano: riduzione del carico fiscale in deficit per le imprese, rimpatrio dei profitti in America, deregulation, barriere tariffarie selettive (lavatrici e pannelli solari sudcoreani e cinesi), presentazione dell’America come paradiso per gli affari per attrarre investimenti. Intanto però l’America usa anche l’arma impropria delle svalutazioni competitive spingendo il dollaro al ribasso. Mercoledì il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha detto che un dollaro debole “è un bene per noi” relativamente alle esportazioni americane – salvo poi correggersi, “meglio un dollaro forte”, e contraddirsi insieme a Trump.

 

Intanto ha provocato la reazione della Banca centrale europea di Mario Draghi che, al di là delle ripercussioni di un cambio manipolato a parole, ha visto come una interferenza nella politica monetaria europea le incursioni dell’ex affiliato Goldman Sachs. La fase espansiva non è finita, certo, ma ci sono differenze sostanziali. La Federal Reserve di Jerome Powell, di nomina trumpiana, alzerà lentamente i tassi. William Dudley della Fed di New York ha rinnovato la proposta di superare il target del 2 per cento dell’inflazione, ormai raggiunto, per avere spazio di manovra per rilanciare gli stimoli. La Banca centrale europea di Mario Draghi per limiti congeniti, derivanti dalla fobia inflazionistica tedesca, non può testare un superamento del target, ma limitarsi ad allontanare nel tempo la conclusione del piano di acquisti di titoli di stato, reinvestirne le cedole per comprare altri asset, e ritardare l’aumento dei tassi. Trump parla di “cooperazione”, ma a parole un suo “generale” contraddice quello spirito. A quale discorso credere? 

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