Silvio Berlusconi e Romano Prodi (foto LaPresse)

Berlusconi, Prodi e il dibattito sull'euro

Giuseppe Di Taranto*

Per il Cav l'introduzione della moneta unica con i valori accettati dal Professore “ha dimezzato i redditi e i risparmi degli italiani”. La replica: “Fu il governo di centrodestra che non volle gestire quella fase”. Ma cosa accadde veramente? 

Il dibattito a distanza tra Berlusconi e Prodi sulle conseguenze dell'introduzione della moneta unica certamente sarà uno dei temi caldi della prossima campagna elettorale. All'affermazione di Berlusconi che “l'introduzione dell'Euro, con quelle modalità e quei valori improvvidamente accettati da Prodi, ha dimezzato i redditi e i risparmi degli italiani”, Prodi ha risposto che fu proprio il governo di centrodestra che “non volle gestire quella fase, come invece avvenne in tutti gli altri paesi”, appoggiato da Maurizio Martina, che ha aggiunto che fu sempre l’esecutivo di Berlusconi “a non volere le commissioni di controllo e l'obbligo dei doppi prezzi esposti”. Oggi, che il tempo ha pacato, se non placato, gli animi sull’introduzione della moneta unica, possiamo porci la domanda: fu davvero così e, soprattutto, al di là dell'esposizione del doppio prezzo, cosa accadde negli altri Paesi europei? 

 

All’epoca, il mainstream sosteneva – e doveva necessariamente sostenere - che il changeover tra le diverse valute e l’euro non aveva causato un aumento del costo della vita nell’Unione monetaria europea; ma non era proprio così. Nel gennaio del 2004, un’indagine condotta per il settimanale “Le Nouvel Observateur” dimostrò che parte dei francesi era convinta che l’introduzione dell’euro avesse causato un forte aumento dei prezzi, nonostante l’Institut national de la statistic et des études (Insee) sostenesse che il tasso d’inflazione era contenuto al di sotto del 2% e di questo solo lo 0,2% era effetto dell’introduzione della moneta unica. La stessa Banca di Francia rilevava che vi erano stati effettivamente degli aumenti nel settore dei servizi e dei beni di uso quotidiano per arrotondamenti consistenti dei prezzi, in particolare per i prodotti alimentari di largo consumo. Per i beni durevoli si registrava, invece, ma già da tempo, una lieve riduzione dei listini. In sintesi, il 56% dei francesi sosteneva che l’euro aveva avuto conseguenze dirette sul loro livello di vita; il 50%, sull’occupazione e il 45% sulla crescita economica. Un’altra ricerca, commissionata al Bureau d’Information et de prévision économique dal gruppo Leclerc, era giunta alla conclusione che nel 2003 l’inflazione reale subita dalle famiglie francesi era stata del 5,5% invece che del 2,2%, come rilevato dall’Istituto nazionale di statistica. Ciononostante, le conclusioni del Bureau furono definite dal ministro dell’Economia artificiose e demagogiche.

 

Nello stesso periodo, anche in Germania la Bundesbank dichiarava che il changeover tra marco ed euro aveva provocato un incremento dei prezzi di beni e servizi di largo consumo, incremento già annunciato da una indagine sull’inflazione dal quotidiano “Bild”, che coniò il termine Teuro, derivandolo da teuer, caro, e da euro. L’aumento dell’1,1% dei prezzi al consumo, nel dicembre 2003, arrivava in piena recessione per la Germania, recessione iniziata circa tre anni prima e che aveva perciò condotto ad una forte riduzione dei consumi e dei relativi prezzi.

 

Proprio il 2003 si era chiuso, in Spagna, con un tasso d’inflazione del 2,6 %, ma un’indagine del ministero dell’Economia dimostrò che la causa più importante dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, all’incirca del 4%, era dovuto alla concentrazione delle grandi imprese nel settore della distribuzione. Consistente anche l’aumento dei listini del comparto alberghiero e della ristorazione: +3,6%, E ciò, nonostante la cosiddetta legge dei prezzi di riferimento, che permetteva una riduzione del costo di oltre 2000 farmaci, delle bollette del gas naturale e di altre numerose tariffe, e l’assunto, solo teorico, che l’introduzione della moneta unica avrebbe condotto a una maggiore competitività e ad una riduzione dei prezzi.

 

In Italia, l’aumento di questi ultimi diede luogo ad una polemica, esattamente come sta accadendo oggi, conseguente a una affermazione dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, secondo il quale la moneta unica ne era stata la causa e “cercare di capire l’impressionante effetto dell’euro sul caro-vita” non significava disconoscerne i vantaggi o essere euroscettici. Per Romano Prodi, presidente della Commissione europea di là a qualche mese sostituito da José Manuel Durão Barroso, erano mancati “i controlli: il comitato nazionale e quelli provinciali non (erano) mai stati riuniti. Negli altri paesi (erano) state date indicazioni completamente diverse rispetto all’Italia”. Gli fece eco Giulio Tremonti, chiarendo che il governo non aveva smantellato il comitato; anzi, lo aveva fatto presiedere da uno dei massimi esperti di finanza, Vito Tanzi, e ribadendo che Prodi avrebbe dovuto aiutare il governo, che aveva chiesto di stampare l’euro di carta. D’altronde, fu proprio Tanzi a sostenere che nella competenze del Comitato euro non era previsto alcun controllo sui prezzi perché in una economia di mercato il loro eccessivo aumento è impedito dalla libera concorrenza, perciò era necessario eliminarne ogni ostacolo.

 

Nel nostro Paese, dopo l’introduzione dell’euro, a chi sosteneva che l’inflazione dal 2001 al 2003 in alcuni settori era più che raddoppiata rispetto a quella rilevata dall’Istat, si contrapponevano le certezze che essa era solo percepita e non reale. Eppure, molti istituti di ricerca mostravano che la percezione era pressoché generalizzata, e non solo in Italia. Una attenta analisi Censis-Confcommercio, “Scenari, simboli e luoghi del consumo”, dimostrò che l’aumento era percepito da oltre l’80% dei consumatori in Francia, in Spagna ed in Germania e dal 95% in Italia, mentre in Inghilterra, area fuori dall’euro, solo dal 57,7%. Per l’Italia, l’Ipsos evidenziò, con “Comprare in recessione”, che i percettori di reddito fisso perdevano costantemente potere d’acquisto e per il 40% non erano in grado di risparmiare, per il 17% erano costretti a ricorrere ai risparmi accumulati e per il 7% ad indebitarsi; l’Eurispes insisteva sui livelli più elevati d’inflazione rispetto a quelli ufficiali e nel Rapporto 2008 mostrò che dal 2001 al 2005 si era registrata una inflazione progressiva del 23%. Sempre nel 2008, l’Ires ammonì che il potere di acquisto dei percettori di reddito fisso, compreso il fiscal drag, dal 2002 al 2007 era diminuito di circa 1900 euro.
Successivamente, altre ricerche hanno rilevato che dal 2001 al 2012, anche a causa dello scoppio della crisi a partire dal 2008, del blocco delle retribuzioni e nonostante la deflazione, il potere d’acquisto degli italiani si è ridotto di oltre il 30%.
Con l’approssimarsi del voto del 4 marzo e con la ripresa sempre più sostenuta dell’economia italiana ed europea, è importante non ritornare su vecchi e ormai superati dibattiti, perché, come scriveva Oscar Wilde, l’uomo ha abbastanza memoria per ricordare centinaia di aneddoti, ma non per ricordare chi li ha già scritti.


*Luiss Guido Carli

 

questo articolo è uscito su  Luiss Open, research magazine dell’Università Luiss