Così la Svezia è diventata il paradiso terrestre delle startup

Alberto Brambilla

Apertura alla concorrenza e una rete sociale che permette di prendersi i rischi. Il "modello scandinavo" fa invidia alla Silicon Valley, dice l'Atlantic. Qui fioriscono Spotify & Co.

Roma. Negli Stati Uniti Bernie Sanders ha tentato di convincere quegli americani a cui le cose non vanno troppo bene che il sistema economico degli Stati Uniti è rapace, e quindi è consigliabile abbracciare il modello collettivista del “socialismo democratico”, che secondo lui funziona alla perfezione nei paesi scandinavi come la Svezia. Non è raro sentire a queste latitudini elogi del welfare scandinavo capace di prendersi cura l’essere umano dalla “culla alla tomba”. Probabilmente sono tutti vittime di un grosso abbaglio. Il “socialismo democratico” tende infatti a combinare l’idea che le decisioni vengano prese collettivamente in modo condiviso e che i mezzi di produzione siano sotto controllo pubblico in massima parte. In questo senso i paesi scandinavi non appartengono affatto a questo modello perché, come altre nazioni avanzate, i mezzi di produzione non appartengono alla collettività, al governo, all’apparato pubblico ma sono principalmente di proprietà privata, esposte alla concorrenza del mercato globale. E le risorse disponibili non vengono assegnate con una pianificazione pluriennale ma è sempre il mercato ad allocarle. Da un lato, quindi, è comprensibile la frustrazione del primo ministro della Danimarca, Lars Løkke Rasmussen, quando ad Harvard ha detto che “so che qualcuno negli Stati Uniti associa il modello nordico a una sorta di socialismo. Quindi fatemi fare chiarezza: la Danimarca è distante da un modello socialista di economia pianificata. La Danimarca è un’economia di mercato”. Tuttavia dall’altro lato sarebbe logico continuare a pensare che un paese ad alto tasso di spesa pubblica, dove i dipendenti ricevono generosi benefici sociali e tempi lunghi di vacanza, insomma un welfare generoso, costituisca un freno all’imprenditorialità.

    

L’evidenza determinante per sfatare il “mito” dello stato sociale assistenziale scandinavo arriva dalla lunga inchiesta del settimanale americano Atlantic sul perché la Svezia sia diventata una fucina di startup di successo mondiale. La Svezia infatti eccelle nel creare nuove imprese, a un tasso incredibile per un paese che ha una popolazione di dieci milioni di persone. Sono svedesi società di successo e fama mondiale come Spotify, il servizio di streaming musicale; Klarna, società di pagamento online; King, la compagnia di gioco. Anche il confronto con la Silicon Velley, la “mecca” delle startup, è significativo. Per startup si intendono aziende ad alta tecnologia di qualsiasi dimensione che però esistono da non più di tre anni. Stoccolma genera il numero più alto al mondo di società tecnologiche miliardarie subito dopo la Silicon Valley. In Svezia ci sono 20 startup ogni mille lavoratori. Mentre, secondo i dati Ocse, sono solo cinque ogni mille lavoratori in tutti gli Stati Uniti. Flavio Calvino, economista Ocse esperto di innovazione e tecnologia, ha detto all’Atlantic che “vediamo un alto tasso di sopravvivenza delle startup in Svezia, e crescono anche in modo abbastanza rapido”.

  

La capacità di generare imprese innovative è essenziale per qualsiasi economia avanzata che ha interesse nella creazione di posti di lavoro, efficienza dei servizi e dinamismo imprenditoriale. C’è una grande fascinazione per il fenomeno “startup” ma non tutte le imprese ricadono in questa categoria perché non sempre si tratta di attività innovative o, più semplicemente, perché difficilmente riescono a sopravvivere. In Italia, per esempio, come ha scritto Ferruccio de Bortoli sull’inserto economico del Corriere della Sera, le nuove società tecnologiche nate in Italia sono solo il 9 per cento del totale delle nuove imprese, sono il 13 per cento nella sola Lombardia e di queste l’80 per cento riesce a superare il terzo anno di vita. Uno dei fattori determinanti è la carenza di un mercato di capitali sviluppato, con fondi di ventura capaci di investire sul processo di sviluppo iniziale per poi, magari, puntare alla quotazione in Borsa.

  

In Svezia il ritmo di nascita di nuove aziende è in accelerazione ed è un andamento in controtendenza anche rispetto agli Stati Uniti. Il pil svedese è cresciuto del 4 per cento nel 2015 e del 3 per cento nel 2016, superando il tasso di altri grandi paesi europei come Francia, Italia e Germania. La concorrenza e l’apertura alla competizione globale hanno giocato un ruolo fondamentale. Prima degli anni Novanta una legislazione protezionista vietava a società straniere di avere quote rilevanti nelle imprese svedesi. La famiglia Wallenberg, una dinastia di notabili, politici e capitalisti che ha contribuito tra l’altro a creare la multinazionale della telefonia Ericsson e quella degli elettrodomestici Electrolux, era refrattaria all’ingresso di concorrenti nel mercato di casa. Nell’ultimo decennio del Novecento l’approccio è cambiato: immediatamente sono arrivate aziende estere disponibili a entrare in società mature per farle crescere o avviare nuove imprese, mentre le compagnie domestiche che non erano in grado di reggere la competizione sono uscite dal mercato. La quota di proprietà estera delle imprese svedesi è aumentata dal 7 per cento nel 1989 al 40 nel 1999. Mojang, la società produttrice di videogiochi, è stata acquisita da Microsoft per 2,5 miliardi di dollari nel 2014. La deregolamentazione e l’apertura al mercato hanno coinciso temporalmente con lo sviluppo di internet spingendo la sperimentazione di nuove tecnologie.

  

Il carattere forse più importante è che proprio la rete di sicurezza sociale incentiva gli imprenditori a sentirsi liberi di prendere rischi calcolati. Secondo l’Atlantic, il fatto che l’università sia gratuita, che gli studenti possano ottenere prestiti per le spese in formazione con la possibilità di proseguire l’istruzione superiore, contribuisce a incoraggiare l’accumulazione di capitale umano e a intraprendere. La sanità è sussidiata, così come le cure parentali sono un’altra sicurezza collaterale. Ma non si tratta di assistenzialismo finalizzato alla conservazione di un posto di lavoro, magari nel settore pubblico, oppure al tentativo di indirizzare una persona verso una specifica mansione in modo programmato, cose che ci si aspetterebbe in un’economia pianificata. Nessuno dei vantaggi offerti dal sistema sociale svedese ha a che fare direttamente con l’avere un lavoro o con la garanzia di averlo. Questo, dice l’Atlantic, significa che le persone sanno che possono assumersi rischi imprenditoriali.

  

Questo processo virtuoso ha un effetto tutt’altro che secondario sulla percezione che gli svedesi hanno delle opportunità che possono cogliere per creare un’impresa nel loro paese: il 65 per cento della popolazione, tra i 18 e i 64 anni, pensa infatti che ci siano buone occasioni per stabilire una nuova azienda in Svezia. Non sono soltanto gli incentivi economici a produrre un habitat fecondo per la nascita di nuove imprese. Ci sono anche tratti culturali della popolazione che giocano a favore: la fiducia nelle potenzialità del paese e la fiducia reciproca. Erik Stam, professore presso la School of Economics dell’Università di Utrecht, afferma per esempio che gli svedesi hanno un alto livello di fiducia reciproco rispetto ad altri paesi, ed è quindi meno probabile il proliferare di contratti complicati per regolare i rapporti di lavoro, in questo modo è più facile un approccio collaborativo in azienda. Inoltre è probabile che un derivato di questa fiducia reciproca porti a fare in modo che i supervisori del personale diano maggiore flessibilità ai dipendenti, senza un controllo rigido su quello che fanno sul posto di lavoro, incentivando nuove idee.

  

Il pensiero profondo della “startup nation” nordeuropea l’ha rivelato Mikael Damberg, ministro della Svezia per l’impresa e l’innovazione, all’Atlantic: “Penso che se vuoi essere un paese innovativo devi dare sicurezza alla gente, in modo che possa osare e prendersi dei rischi”.

  

Birk Nilson, uno dei co-fondatori di Tictail, società di commercio elettronico che ha raccolto 32 milioni di dollari di finanziamenti, è figlio di questo humus culturale. Nilson, che ora ha 33 anni, ha imparato a codificare all’età di 11 anni e ha iniziato a lavorare in tecnologia quando era alle scuole superiori, creando un blog per una rivista svedese quando ne aveva 16. Tre anni dopo ha iniziato a lavorare su Tictail. Nilson, per esempio, sapeva che se la sua azienda fosse andata gambe all’aria non si sarebbe trovato senza copertura sanitaria o con i debiti degli studi da pagare. “Anche se non riesci, anche se vai incontro a un fallimento, la Svezia ha una rete di sicurezza robusta – ha detto all’Atlantic – penso quindi che non sia una prospettiva tanto scoraggiante, come magari può esserlo negli Stati Uniti”.

  

Anche le startup innovative sembrano beneficiare di questo ambiente economico, e soprattutto culturale. I manager delle nuove imprese, da Klarna a Spotify, parlano tra loro per condividere esperienze e consigli e per rendere il proprio business più produttivo.

  

A dispetto dell’idea di un paradiso socialista, la Svezia dimostra che un’economia dinamica è capace di svilupparsi anche in un ambiente con alte tasse e una rete sociale diffusa. Ma soprattutto dimostra, come sintetizza l’Atlantic, che le economie possono cambiare nel tempo, da luoghi dove le nuove imprese sono poche e distanti a luoghi in cui prosperano.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.