Jean Pierre Mustier, amministratore delegato di Unicredit (foto Piero Cruciatti / LaPresse)

L'anno d'oro di Unicredit con Mustier. L'eccezionale francese

Alberto Brambilla

Mustier non ha preferenze politiche, ripete spesso che quello che fa bene all’Italia fa bene alla sua banca. Ma vale anche il contrario. Il miglioramento di Unicredit può mettere una sana pressione sull’industria

Roma. Con la disputa franco-italiana su Fincantieri e le manovre di Vivendi su Mediaset e Telecom Italia – per non rivangare Parmalat o le case d’alta moda – gli italiani covano sospetti sulle società e sui manager francesi in patria. Possono fare un’eccezione quando si parla di Jean Pierre Mustier, ex capo della banca d’affari e investimenti di Unicredit, tornato in banca da amministratore delegato il 30 giugno 2016.

 

Da allora il valore delle azioni della banca italiana più ramificata all’estero è aumentato più dell’80 per cento. Un risultato che include il balzo di ieri del 6,5 per cento in seguito ai risultati del secondo trimestre dell’anno. L’utile netto a 945 milioni di euro, ben oltre le attese della media degli analisti (a 587 milioni).

 

Poche e decise le mosse di Mustier. Prima ha venduto partecipazioni (una quota di FinecoBank) e poi asset di valore (Pioneer, carica di titoli di stato italiani, al gestore francese Amundi) e di recente ha diminuito l’ esposizione sui crediti in sofferenza (ceduti in blocco per 17,7 miliardi ai fondi americani Pimco e Fortress con forte sconto). Il tutto unito a un piano industriale al 2019 che riduce il perimetro con la chiusura di 947 filiali tra Italia, Germania, Europa centrale. Sei mesi fa il coup de théâtre. Mustier ha portato a successo l’aumento di capitale più grande di sempre a Piazza Affari raccogliendo 13 miliardi di euro sul mercato dopo un tour globale alla ricerca di investitori (senza jet privato, venduto per segnalare che la banca è attenta al centesimo).

 

E’ stata una prova di forza per Unicredit e di fiducia per l’intero sistema bancario che all’epoca era sotto stress per via dell’intervento pubblico in favore del Monte dei Paschi di Siena.

 

La ricapitalizzazione ha contribuito ad allentare la pressione sul settore. Il predecessore Federico Ghizzoni (ora alla presidenza della divisione italiana di banca Rothschild) aveva negato l’urgenza di denaro fresco. Mustier invece si è distinto dalla prassi italiana di chiedere soldi alle fondazioni bancarie e ha radunato investitori esteri spendendo la sua reputazione da ex enfant prodige di Société générale. Il fondo americano Capital Research ora è primo azionista (5,1 per cento), ha superato il fondo di Abu Dhabi Aabar (5). Il fondo americano Black Rock (4,3) precede il gestore Dodge &Cox (3,5). La Banca centrale libica è fuori dalla top ten. Il fondo sovrano norvegese ha sostituito la Fondazione Crt come quinto socio più importante. Di conseguenza il suo esponente Fabrizio Palenzona, power broker legato alle lobby dei trasporti, a lungo regista della banca, aveva lasciato la vicepresidenza a marzo.

 

Mustier non ha preferenze politiche, ripete spesso che quello che fa bene all’Italia fa bene alla sua banca. Ma vale anche il contrario. Il miglioramento di Unicredit può mettere una sana pressione sull’industria. La capitalizzazione di Unicredit ora raggiunge i 39,2 miliardi e tallona da vicino proprio SocGen. Al punto che gli analisti di Mediobanca non escludono un ingresso nello Stoxx 50, l’indice dei principali titoli dell’Eurozona. Si sono rovesciati i rapporti di forza rispetto a Intesa Sanpaolo che ha appena riportato un utile netto di 837 milioni – escluso l’assorbimento delle due banche venete garantito dallo stato – meglio della attese ma in calo rispetto al secondo trimestre dell’anno precedente. In un anno il titolo di Intesa è cresciuto del 59 per cento, quello Unicredit dell’85. Così Unicredit è un concorrente a pieno titolo per Intesa, abituata a dominare il mercato domestico.

 

Manca l’affondo: smontare la filiera Unicredit-Mediobanca-Generali che blinda la finanza dal 1958, minimizzando le partecipazioni a cascata nei prossimi due anni. Si vedrà.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.