La banca è accusata dal Dipartimento della giustizia Usa di aver venduto agli investitori, prima del 2008, titoli che avevano come collaterali mutui inesigibili. Una multa di 14 miliardi di dollari

Deutsche Bank, un impero di guai

Stefano Cingolani
Bilancio in rosso, un volume immenso di derivati e la mega-multa americana. La crisi della banca tedesca fa paura, anche in Italia. Il vero cruccio: in patria non fa profitti.

Solo un nuovo Bismarck potrebbe salvarla. In Germania ormai sono convinti che la madre di tutte le banche tedesche, la Deutsche Bank, stia nei pasticci per il colpo basso del governo americano, ma anche perché si è snaturata, diventando una banca d’affari, perdendo dunque il legame con il Modell Deutschland che aveva nutrito per un secolo. Così, dopo averla riplasmata e omologata, i nuovi signori e padroni (tra i maggiori azionisti ci sono Bank of America, Goldman Sachs, il fondo Vanguard) la gettano nella polvere. Certo 14 miliardi di dollari sono un colpo durissimo, una mega-multa che solletica i nostalgici del grande complotto pluto-giudaico-massonico. La banca è accusata dal Dipartimento della giustizia Usa di aver venduto agli investitori, prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, titoli che avevano come collaterali mutui inesigibili.

 

Non è stata la sola, naturalmente. JPMorgan Chase, Citigroup e Morgan Stanley hanno già accettato di pagare una somma totale di 23 miliardi di dollari per chiudere le cause relative ai mutui subprime. Il record è di Bank of America punita per 16,65 miliardi di dollari nell’estate del 2014. Ma la Deutsche Bank non intende cedere. Del resto non è un’azienda di credito come le altre, è un monumento, anzi un mito. Così, si apre una lunga e complicata trattativa che farà felici gli avvocati. Intanto la banca continuerà a prendere docce fredde e a perdere quattrini alimentando ogni speculazione.

 

Il valore in Borsa è crollato: nell’ottobre 2015 un’azione quotava 30 euro, oggi supera di poco i 12 euro. L’anno scorso si è chiuso con una perdita di 6,8 miliardi; ma soprattutto è la prima volta nella storia che la banca chiude il bilancio in rosso. E puzza ancora di zolfo lo scherzetto di ferragosto. E’ la notte tra il 13 e il 14 agosto e un account che fa di tutto per sembrare l’agenzia Reuters batte che la Deutsche Bank si appresta a chiedere alla Banca centrale europea un prestito straordinario. Altro che Lehman Brothers, qui siamo al crac di una delle prime banche mondiali, con filiali in ben 70 paesi. Per fortuna qualche internauta comincia a insinuare il dubbio che @Reuters_Bus sia fasullo, che si tratti di hackeraggio, di spionaggio industriale, di cyberwar persino. Poco dopo l’account viene cancellato e dello spaventoso rumor non c’è più traccia. Ma la bufala di mezz’estate dimostra che ormai il colosso bancario tedesco è come un orso impagliato nel tiro a segno di una fiera. Se cade DB, DeBe, come la chiamano i cultori degli acronimi, trascina con sé la Germania e l’Europa.

 

Una valanga di guai s’è abbattuta sullo storico pilastro dell’economia tedesca. La manipolazione dei tassi di riferimento Euribor e Libor è costata una multa da 3,5 miliardi; il tentativo di lucrare sul mercato dell’oro ha messo in allarme la magistratura svizzera; le operazioni in Russia hanno provocato l’accusa di riciclaggio e violazione delle sanzioni (anche con l’Iran la banca è sospettata di non aver rispettato l’embargo). C’è poi l’evasione fiscale che riguarda lo scambio dei diritti di emissione dei gas e ha provocato una clamorosa irruzione della polizia negli uffici del quartier generale. Ma a minacciare Deutsche Bank non sono solo gli scandali finanziari (sono state pagate già spese legali superiori al miliardo di euro e chissà quanti altri processi sono in corso), né le accuse di spionaggio che ne hanno offuscato l’onorabilità; non sono solo le difficoltà economiche in Cina o le spese straordinarie per adeguare i requisiti patrimoniali. Il vero cruccio è che la banca non fa profitti in patria, dove subisce la concorrenza delle aziende di credito locali salvate e protette dal governo. E, con i tassi negativi in seguito alla politica monetaria della Banca centrale europea, non c’è verso di recuperare.

 

Il big boss della DeBe da un anno è un britannico, dopo aver sperimentato svizzeri, americani, persino indiani, e John Cryan ha annunciato l’intenzione di congelare i dividendi per due anni e tagliare i costi chiudendo altri sportelli (i 18 mila aperti in Germania non producono un euro di utile) e dipendenti (se ne andranno in 35 mila), oltre a cedere Postbank e altre attività all’estero. E’ presente in 70 paesi e il primo mercato europeo dopo quello nazionale è l’Italia dove svolge un ruolo di primo piano, anche in operazioni sulfuree, come il “progetto Santorini” per abbellire i conti del Monte dei Paschi di Siena, stando alle accuse dei magistrati milanesi.

 


John Cryan, amministratore delegato della Deutsche Bank (foto LaPresse)


 

La Deutsche Bank ha progressivamente ridimensionato il mestiere di banca commerciale per potenziare al massimo la componente finanziaria. Così, oggi è gravata da un volume immenso di contratti derivati di ogni genere e valore: secondo gli ultimi dati, che risalgono ad aprile, si tratta di oltre 60 mila miliardi di euro, due terzi in più della Lehman prima del crac. Per avere un’idea, è un livello pari a 24 volte il prodotto lordo tedesco e sei volte quello dell’intera zona euro. Naturalmente, non succederà mai che tutte le scommesse finanziarie debbano essere onorate allo stesso tempo, in ogni caso la banca è zeppa di bond ad alto rischio, ben oltre qualsiasi altra grande concorrente mondiale.  

 

La sua crisi, contrariamente alle apparenze, non affonda le radici in un sistema tedesco immobile e tetragono, ma nel tentativo di sciogliere l’intreccio perverso tra banca, assicurazioni e industria sul quale era stata costruita la potenza economica germanica. La riforma era diventata necessaria anche in vista dell’euro, tuttavia ha spinto le banche a cercare altri modi di fare business fuori dai confini e in territori per loro inesplorati.

 

La banca è stata fondata a Berlino nel 1870 per sostenere il commercio estero della nuova potenza tedesca. Tra i primi soci c’era un membro della famiglia Siemens, ma il legame più organico venne stabilito con i Krupp e con la Bayer, comprando i loro titoli e sostenendo i due gruppi in Borsa, poi con Daimler-Benz della quale diventa il principale azionista. Così, si trasforma in una istituzione chiave anche sul mercato interno, costruisce un’ampia rete nazionale e durante il nazismo sarà la cassaforte della Gestapo, finanziando ampiamente il sistema Auschwitz (come ammetterà soltanto nel 1999). Con la caduta del Muro di Berlino svolge un ruolo di punta nell’unificazione delle due Germanie. Il 9 novembre 1989 si apre la breccia, il 30 novembre Alfred Herrhausen, presidente della Deutsche Bank, uno dei maggiori sostenitori della riconciliazione nazionale, nonché consigliere di Helmut Kohl, viene ucciso in un attentato dinamitardo probabilmente della Stasi non della Raf, la Rote Armee Fraktion, come si disse fin dall’inizio.

 



 

Proprio la nuova grande Germania con il suo ampio cortile di casa nell’est europeo rafforzerà la vocazione di banca d’affari. Mentre il boom americano, spinto dalla rivoluzione high-tech e dalla globalizzazione, mostra che con la compravendita di aziende e di titoli cartacei si guadagna molto più che prestando denaro. Finché non si apre il vaso di Pandora dei derivati e dei mutui subprime. Nel 2001 la Deutsche Bank viene quotata a Wall Street e si lancia sul mercato dei Cdo (Collateralized debt obligation), obbligazioni che hanno come garanzia un debito. Come segno del nuovo corso, nel 2005 vende in mezz’ora 35 milioni di azioni Daimler per un valore di 1,3 miliardi di euro, fino a ridurre la sua quota dal 10 al 4 per cento. Nel 2011 la commissione d’inchiesta del Senato americano definisce la banca tedesca un caso di scuola per capire come è stata creata la bolla finanziaria.

 

Cryan dovrebbe portare nuovo dinamismo e stabilità ai vertici dopo la lunga catena di dimissioni e licenziamenti, il più clamoroso dei quali riguarda il potente banchiere svizzero Josef Ackermann nel 2013. Il riacquisto di titoli propri, i CoCos (Contingent Convertible bonds) strumenti ibridi di capitale consentiti alle banche per mettersi al riparo dagli alti e bassi delle azioni ordinarie, diventa un test di solidità e credibilità. Ma molti dubitano che sarà sufficiente. Così, nel mondo della finanza s’aggira una domanda spettrale: vuoi vedere che si deve salvare la Deutsche Bank? E chi la salva? A Francoforte, la Bundesbank, la banca centrale tedesca, incrocia le dita. Mario Draghi è estremamente preoccupato. L’opinione pubblica è pronta a chiedere la nazionalizzazione, in barba a Bruxelles e al divieto per gli aiuti di stato e al bail-in che, nel caso di collasso dell’unica banca sistemica tedesca, non verrebbe applicato. L’incauto accordo che mette nei pasticci i piccoli obbligazionisti bancari, così verrà sepolto per sempre. Ma a che prezzo per l’intera economia europea.

 

La Deutsche Bank è davvero troppo grande, ma soprattutto, nonostante la sua recente “americanizzazione”, resta troppo tedesca per fallire. Non ha dubbi John Mack, che era amministratore delegato di Morgan Stanley quando venne salvata da zio Sam: “Ho sentito circolare l’idea che possa non pagare gli interessi, è semplicemente assurda, Berlino non lo consentirà. Se avrà bisogno di una rete di sicurezza, il governo gliela darà”. A febbraio Max Keiser, il conduttore televisivo americano grande costruttore di complotti finanziari, durante la sua trasmissione “Keiser Report” sul canale moscovita RT, ha sentenziato: “Deutsche Bank è tecnicamente insolvente”. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble è sceso subito in campo per dichiarare che la banca è solida e ha le risorse per tirarsi fuori dal buco nero in cui è precipitata. Quel buco, sei mesi dopo, si è allargato ancora di più.

 

La banca può essere rimessa a posto, sostiene James Chappell, senior analyst della Berenger Bank di Amburgo, ma ha bisogno di aumentare il capitale, diventare più efficiente, smaltire una parte dei derivati che ha in pancia, ritrovare un equilibrio operativo visto che da tempo sembra più un hedge fund che un istituto di credito. Soprattutto dovrà fare i conti con le autorità americane, più rigorose di quelle europee. I punti chiave per la Federal Reserve sono due: la qualità del management e la qualità del capitale (deve essere più elevato rispetto agli standard europei e composto di azioni più attività reali, non di carta e derivati). Per la Banca centrale europea il rischio s’annida invece nella qualità dei crediti. Così, mentre Deutsche Bank ha superato lo stress test della Bce (ha più attività finanziarie che prestiti), ha fallito clamorosamente quello della Fed. Avrà un esame di riparazione nel 2018, nel frattempo deve fare i compiti a casa (espressione molto in voga non solo in Germania), soprattutto dovrà davvero riparare i cocci rotti.

 

A Berlino e a Francoforte, così come tra le maggiori banche europee e internazionali, si discute su chi e come potrebbe intervenire. Una vera e propria nazionalizzazione sarebbe pesantissima anche per l’equilibrato bilancio pubblico tedesco. Tuttavia non è questa la strada. Si è parlato di fonderla con Commerzbank, ma l’ipotesi è stata esclusa, sarebbe come mettere insieme un cieco e uno storpio. Commerzbank venne salvata dal governo nel 2008 dopo il crac di Lehman Brothers, con l’obiettivo di risanarla e portarla sul mercato, invece è ancora sul groppone dei contribuenti. Il governo svolgerà un ruolo attivo, su questo concordano gli analisti, tuttavia si vuole individuare un meccanismo misto, un po’ pubblico e un po’ privato. Ed è cominciata la ricerca dei nuovi soci forti.

 

Non c’è bisogno, in realtà, di un grande scouting, i futuri nuovi azionisti possono essere soltanto i colossi industriali e finanziari tedeschi, la Siemens o la Daimler che così riannoderebbero antichi legami, la compagnia di assicurazioni Allianz che un tempo faceva coppia con Commerzbank o grandi famiglie industriali come i Quandt proprietari tra l’altro della Bmw e del gruppo Varta (batterie e accumulatori). Insomma, un manipolo di nomi eccellenti pronti a diventare azionisti forti, scalzando i fondi e le banche d’affari americane, in occasione del prossimo, inevitabile e massiccio aumento di capitale. In questo modo rischia di rientare dalla finestra quell’intreccio che era stato sciolto negli anni riformatori del governo socialdemocratico guidato da Gerhard Schröder, colui il quale ha reso più flessibile il mercato del lavoro e salvato la Germania dal patto di stabilità che gli stessi tedeschi avevano voluto così rigido e stupido (parola di Romano Prodi).

 

Sono molti i nostalgici dei bei tempi in cui Deutsche Bank nominava presidenti e amministratori delegati dei Konzern, tesseva alleanze, stipulava contratti di matrimonio. Ne sanno qualcosa anche alla Fiat perché alla fine degli anni Novanta la banca, entrata nel patto di sindacato orchestrato da Enrico Cuccia, brigava per maritare il gruppo italiano con Daimler, prima che quest’ultima scegliesse la Chrysler e la Fiat convolasse a nozze con General Motors (mai accoppiamenti furono più sbagliati, un quartetto che assomiglia, si parva licet, a quello delle “Affinità elettive” di Goethe). Ma non è detto che l’operazione nostalgia riesca. Con tutta la voglia di difendere il sistema che pure si sente in giro, grandi argentieri e gruppi multinazionali quotati in Borsa fanno i conti. Quanto costerebbe una operazione del genere? Siamo sicuri che renderebbe più facile il risanamento? E quando cominceranno a riscuotere consistenti dividendi? Senza dimenticare che sarebbe il ritorno di un modello che si è cercato faticosamente di superare.

 

Vedremo presto quale strada verrà imboccata, anche se finora prevale la strategia dell’idraulico: stappare i condotti finanziari intasati e aggiustare i tubi così come sono. Del resto, non si vedono all’orizzonte grandi strategie. La public company all’americana non ha funzionato; quanto al bismarckismo, Angela Merkel, nonostante tutti i suoi guai, s’accinge a superare il record del baffuto cancelliere guglielmino: se non emergono serie alternative, tra un anno s’insedierà per la quarta volta nel Bundeskanzleramtsgebäude, dietro le ampie vetrate del palazzo governativo. La Deutsche Bank ci sarà ancora, nessuno può dubitarne. Più difficile capire oggi come sarà diventata.

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