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Noi e le tasse

Con tutto il rispetto per il presidente Mattarella, non ho ancora capito se non si possono abbassare le tasse perché c’è un’alta evasione oppure c’è un’alta evasione perché le tasse sono troppo alte - di Giuliano Ferrara
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Con tutto il rispetto per il presidente Mattarella, non ho ancora capito se non si possono abbassare le tasse perché c’è un’alta evasione oppure c’è un’alta evasione perché le tasse sono troppo alte. Il presidente abbraccia la prima tesi. E naturalmente fa benissimo. In un discorso d’augurio e ottativo non si possono non castigare coloro che non pagano il dovuto. Punto. Ma a me piacerebbe che l’ufficio studi di Confindustria, dai cui allarmi sull’evasione è esplicitamente partito Mattarella, approntasse uno studio su questa faccenda che ha il sapore dell’ovvio ma è forse più saliente di quanto si pensi. Certo, sposare la seconda tesi, cioè che la gente evade quando le tasse sono esageratamente alte, ha un che di giustificazionista, vuol dire che un comportamento sociale fortemente reprensibile è tuttavia facilmente comprensibile.
 
E questo mi porta a un interrogativo, e insieme a un tentativo di ragionamento che è pragmatico e di principio. Con qualche rara eccezione spesso sanzionata in modo esemplare, gli americani pagano le tasse: ne pagano poche relativamente alla scala fiscale europea, ma le pagano. Anche francesi, tedeschi, inglesi e scandinavi sono in una situazione simile, sebbene con livelli di tassazione ingenti: tendenzialmente pagano il dovuto. E allora, che cosa c’è di speciale negli italiani?
 
Si dice da tempo immemorabile degli italiani che non hanno senso dello stato e possiedono in abbondanza l’arte di arrangiarsi. Sono due incontrovertibili banalità. Forse il prossimo rapporto del Censis, la somma cattedra sociologica e antropologica incaricata ogni anno di ritrarre il paese in uno stadio determinato della sua evoluzione, potrebbe essere dedicato all’indisciplina creativa di noi cittadini italiani. Invece di ripeterci come da sempre avviene giaculatorie inutili e spesso grossolane sul nostro individualismo vizioso, sul familismo di derivazione cattolica, e d’altra parte sulla straordinaria misura di eccellenza del nostro talento, capace di superare creativamente il rude trauma sociale dell’altissima inadempienza fiscale, e di conviverci, bisognerebbe probabilmente provare a stabilire quale relazione ci sia tra l’uno e l’altro fenomeno.
 
[**Video_box_2**]Ci sono paesi che hanno avuto molti sovrani e una centralizzazione statale precoce, paesi che hanno riscoperto l’etica della salvezza attraverso la severità di una riforma religiosa, paesi che considerano perno della comunità e pegno dell’indipendenza e libertà delle famiglie e dei singoli il governo federale e le sue tasse, insieme con la sovranità presidenziale elettiva. Poi ci siamo noi, sudditi di uno stato per conquista regia, prima, e per giovane e inesperto repubblicanesimo, peraltro fallito, dopo. L’ultimo ideologismo di successo, molto caro al governo Renzi e su cui lo stesso Mattarella ci ha intrattenuto dalla sua poltrona domestica, è che siamo il paese della Bellezza. Ma l’idea che le tasse siano belle, espressa dal compianto Tommaso Padoa-Schioppa, fu trattata come un insensato paradosso. Se aggiungiamo alla Bellezza il Provvidenzialismo e la Misericordia forse definiamo il trio magico che rende per molti italiani insopportabile, e stupido, il gesto per così dire poco umanistico di pagare le tasse fino all’ultima lira in segno di coesione morale e civica.
 
Nell’ultimo bellissimo journal di Gabriel Matzneff è citata una definizione malapartiana del nostro paese il cui autore è il grande Alexandre Dumas (Le Chevalier de Sainte-Hermine): “C’è sempre stata e in ogni tempo una metà dell’Italia che danza mentre l’altra piange”. Ecco.
 
 
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