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Per cassa e per equità: lavorare!

Marco Valerio Lo Prete
Nell’Italia col tasso d’occupazione più basso d’Europa e con pensioni future “da sommovimento sociale”, Boeri ha un piano à la page per lavorare meno e salvare “l’equità” (tra i più anziani). Meglio abolire l’età pensionabile
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Roma. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha presentato due giorni fa una proposta legislativa su assistenza e previdenza. Obiettivi: “Abbattere la povertà fra chi ha più di 55 anni”, e “garantire una transizione più flessibile dal lavoro al non lavoro e viceversa”. “Non per cassa, ma per equità”, s’intitola il documento. Solo che la “cassa” in Italia è un problema, nemmeno piccolo, e l’“equità” praticata con un prelievo nelle tasche di alcuni pensionati non è mai un bel vedere. Specialmente se le giovani generazioni, in questo frullare di tabelle e commi pur seriamente ponderati, sono costrette al ruolo di spettatrici. Ma procediamo per ordine.

 

Le tre misure bandiera di quelli che alcuni chiamano la “contromanovra” dell’Inps sono: la possibilità di accedere prima alla pensione, la decurtazione di vitalizi e pensioni elevate, l’introduzione di un reddito minimo per gli over 55 disoccupati. Da Palazzo Chigi finora siamo allo stop sostanziale su tutti e tre i fronti. La flessibilità per andare anticipatamente in pensione suona bene, ma costa tanto, anche se limitata a chi ha una pensione di almeno 1.500 euro come prevede Boeri: da 1,6 miliardi nel 2016 a oltre 6 miliardi nel 2019 (pagina 67 del documento Inps), per salire fino a 8-9 miliardi di spesa se tale flessibilità in uscita fosse consentita anche a chi ha solo 1.000 euro di pensione. Boeri però sostiene di poter coprire l’ammanco imponendo penalizzazioni sul trattamento anticipato, aggredendo i vitalizi (per una cifra simbolica), infine con un blocco dell’indicizzazione delle pensioni sopra i 3.500 euro lordi e un prelievo su quelle sopra i 5.000. A questo punto, tuttavia, per l’esecutivo salirebbero troppo i costi sociali e politici: sia sui lavoratori precoci con pensioni retributive già tendenzialmente basse (chi ha iniziato a lavorare a 18 anni, oggi può andare in pensione a 60 anni e 7 mesi con 1.000 euro, secondo il piano Inps con 820 euro), sia più in generale su tutti i pensionati ai quali Palazzo Chigi vuole far arrivare in questa fase un messaggio di “fiducia” da non vanificare con un prelievo inatteso ed ex post. Insomma, sono le “priorità politiche” di Boeri vs. quelle di Renzi. A proposito di lotta alla povertà, infine, il governo ribadisce di essere intervenuto già in legge di Stabilità privilegiando le famiglie più povere e con figli. Di nuovo, priorità politiche di Boeri vs. priorità politiche di esecutivo e Parlamento. 

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Il governo Renzi comunque ostenta liberalità: “Ben venga il dibattito”, dicono da Palazzo Chigi. Ma è proprio il fuoco del dibattito a convincere poco. Almeno sul fronte previdenziale Boeri ha il merito, questo sì, di proporre soluzioni di riequilibrio intra-generazionale (quindi tra gruppi di pensionati e quasi-pensionati) e senza aggravi intergenerazionali (cioè a carico dei futuri pensionati come finora è sempre stato in Italia). Tuttavia siamo pur sempre nel paese in cui conviene non far sapere, a molti degli attuali giovani lavoratori, quanto magro sarà il loro assegno pensionistico, altrimenti “scoppierebbe un sommovimento sociale”, come sfuggì una volta al predecessore di Boeri. E allora perché le priorità per un welfare attivo non dovrebbero essere proprio quei lavoratori, giovani e un po’ meno giovani? Nel 2013 lo stesso Boeri, insieme all’economista Tommaso Nannicini che nel frattempo è diventato consigliere di Renzi, scrisse un paper intitolato esattamente come quello di due giorni fa, “Non per cassa, ma per equità”. Piccolo dettaglio: in quello studio omonimo, pubblicato da Lavoce.info, le risorse recuperate – sempre limando le pensioni retributive troppo disallineate dai contributi versati – puntellavano soprattutto la contribuzione figurativa di giovani con carriere lavorative discontinue. Oggi le priorità di Boeri sembrano cambiate.

 

[**Video_box_2**]I dati, tuttavia, continuano a descrivere uno squilibrio macroscopico che meriterebbe di essere affrontato. Con misure e parole radicali. In Italia la spesa pensionistica ammonta a quasi 250 miliardi di euro, poco meno di un terzo di tutta la spesa pubblica, ovvero il 15,5 per cento del pil mentre la media Ocse è 9,5. A fronte di ciò, il nostro paese ha un altro triste primato, quello del tasso di occupazione – la percentuale di persone che lavorano sul totale di quelle che potrebbero farlo – più basso d’Europa, pari al 55,6 per cento, 8,5 punti percentuali più basso della media Ue. Insomma, siamo sempre più un paese di pensionati che continua a parlare soltanto di pensionati. E a legiferare soltanto per avvicinare l’agognata pensione. E’ un meccanismo visto all’opera nella saga degli “esodati”. Questi ultimi nel 2011 erano quelle poche migliaia di lavoratori bloccati tra scivoli concordati con le aziende e una riforma intervenuta nel frattempo per cambiare le regole; poi però, con il sostegno di sindacati vocianti e media conformisti, “esodato” è divenuto sinonimo di “cinquantenne o sessantenne disoccupato”. E così, esecutivo dopo esecutivo, Renzi incluso, tutti a stanziare risorse per misure di “salvaguardia”. Siamo arrivati a sette esborsi ad hoc, decine di miliardi per soddisfare aspettative di prepensionamento in persone in età lavorativa. Ora il bocconiano Boeri vuole aggiungere pure l’opzione di andare in pensione prima, a costo di mettere le mani nelle tasche di chi in pensione c’è già andato e di lasciare le briciole ai giovani. Non è il modo più lineare per scuotere un paese intorpidito. Per cassa e per equità, conviene lavorare, di più e tutti. Nei paesi anglosassoni, in molti campi, si sta procedendo con l’abolizione tout court dell’età pensionabile obbligatoria. Lì, andare in pensione stanca. Da noi, continuano a dipingerlo come l’obiettivo di una vita.

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