Una manifestante a Seattle chiede l’abolizione della polizia. Nella città dello stato di Washington i manifestanti hanno stabilito una “zona autonoma” nel quartiere di Capitol Hill

Abolire la polizia per correggere la storia

Lo slogan “defund the police” è stato superato dall’abolizione totale, idea in linea con la lezione di W.E.B. Du Bois ma politicamente scivolosa

“Defund the police”, tagliare o eliminare i finanziamenti alla polizia, è lo slogan politico attorno a cui si è condensata la rabbia di molti, in America e non solo, dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis e di altri afro-americani da parte della polizia. Il movimento per decurtare i fondi alle forze di polizia, avviando radicali percorsi di riforma delle forze dell’ordine, lavora da decenni per combattere le logiche discriminatorie che sono alla base di molti dipartimenti, per mettere un freno alla militarizzazione della polizia, per contrastare gli abusi di potere e, più in generale, per reindirizzare risorse destinate alla foucaultiana attività di “sorvegliare e punire” verso altri tipi di istituzioni per il contrasto alla criminalità, dai servizi sociali all’educazione.

 

La strategia del definanziamento della polizia si basa su una filosofia della prevenzione: investire su servizi alla persona e alle comunità dovrebbe attenuare le condizioni che generano la criminalità, e dunque il mondo a polizia definanziata non è il regno del caos ma è un mondo in cui c’è meno bisogno di agenti armati che possono legittimamente ricorrere all’uso della forza. C’è dunque una duplice premessa all’origine di questa visione: la prima è che la criminalità sia il prodotto di condizioni materiali e sociali che, in quanto tali, sono riformabili; la seconda è che la polizia sia, in genere, parte attiva, e non forza contrastante, del sistema di discriminazioni e iniquità che genera e alimenta il crimine.

  

  

Nelle proteste c’è uno scontro fra visioni: i riformisti vogliono tagliare i fondi, i massimalisti sono stanchi di perdere tempo

Questo ambito di riflessione e proposta politica contiene al suo interno molte correnti e sottocategorie, che formulano proposte riformiste, orientate a indurre cambiamenti graduali, oppure invocano cambiamenti drastici e immediati. Nel novero di queste correnti c’è anche chi, ad esempio, da anni lotta per installare telecamere sulle divise degli agenti, nella convinzione che il sorvegliante, quando sa che il suo operato è sorvegliato, tenda a cambiare comportamento. I tragici eventi (filmati) delle scorse settimane mostrano, fra le altre cose, che riforme di questo genere sono forse necessarie, ma non sufficienti. Anche Black Lives Matter si muove all’interno di questo perimetro. Nella sezione “invest-divest” sulla piattaforma del movimento si legge: “Chiediamo investimenti nell’educazione, nella salute e nella sicurezza dei neri, invece di investimenti nella criminalizzazione, detenzione e repressione dei neri. Vogliamo investimenti sulle comunità nere, decisi dalle comunità nere, e disinvestimenti sulle forze sfruttatrici, incluse le prigioni, i combustibili fossili, la polizia, la sorveglianza e le corporation che sfruttano”. Nella campagna per il defunding di forze di polizia che “non proteggono né salvano le nostre vite”, ma “spesso le mettono in pericolo”, il movimento ha chiesto una riduzione dei fondi per la polizia a livello nazionale e un corrispondente aumento dei finanziamenti per “risorse che assicurino ai neri non solo di sopravvivere, ma di avere successo”.
  
Il mosaico di movimenti per il definanziamento della polizia, a lungo confinato fra attivisti e intellettuali, spesso nella parte più radicale dello spettro politico, si è conquistato uno spazio di legittimità nel dibattito politica. Seth Stoughton, professore di legge della University of South Carolina che studia i sistemi di polizia, ha detto al New York Times che nelle ultime due settimane ha visto più legislatori parlare di profonde riforme dei dipartimenti di polizia che in tutto il resto della sua carriera: “C’è un ampio riconoscimento bipartisan che lo status quo è inaccettabile e occorre fare qualcosa per cambiarlo”. La città di Minneapolis ha fatto un passo importante in questa direzione. Nove membri del consiglio della città, una maggioranza a prova di veto da parte del sindaco, hanno proposto di smantellare e ricostruire il dipartimento di polizia cittadino, spinta che si è tradotta in una mozione, approvata all’unanimità, che dà alla municipalità un anno di tempo per studiare una soluzione.

  

La decisione, com’è ovvio, è direttamente collegata all’omicidio di Floyd, ma è anche figlia di un percorso di proposte, richieste e contestazioni che per decenni gli attivisti locali hanno presentato alle autorità. Un lungo rapporto del 2017 intitolato “Enough is Enough!” traccia un bilancio ferocemente critico dell’attività della polizia di Minneapolis nei 150 anni della sua esistenza. Gli autori, attivisti e accademici impegnati nella riforma del sistema di polizia, scrivevano che “il dipartimento di polizia di Minneapolis è stato costruito sulla violenza, sulla corruzione e sulla supremazia bianca” e tutti i tentativi di accertarne le responsabilità sono falliti, anche a causa della “cultura del silenzio e della complicità” che regna sugli abusi degli agenti. La speranza di riformarlo veniva infine dichiarata come un’illusione da abbandonare: “E’ tempo di guardare in faccia la realtà: se vogliamo costruire una città in cui tutte le comunità possono esistere, dovrà essere una città senza il dipartimento di polizia di Minneapolis”. Il documento, in sostanza, articolava il passaggio da “defund the police” a “abolish the police” che oggi si affaccia sull’intero dibattito americano, un passaggio che avviene per ferrea logica di necessità: se i dipartimenti di polizia sono espressione di un sistema strutturalmente razzista, ingiusto e oppressivo, allora la loro reale riforma, tramite taglio dei finanziamenti, non è che un miraggio. L’unica soluzione possibile è l’abolizione.

 

La “abolition-democracy” di cui parlava Du Bois prevede lo smantellamento totale delle strutture oppressive

Il passaggio dal definanziamento all’abolizione è cruciale nel dibattito di questi giorni sulla polizia, perché chi, di fronte alla presente ondata di episodi di violenza contro gli afro-americani, spera di mettere un freno agli abusi con alcune procedure legali e finanziarie, è costretto a confrontarsi con una lunga storia di riforme della polizia che non hanno fermato le violenze. In un commento pubblicato sul New York Times, l’attivista Mariame Kaba ha messo in fila i tentativi degli ultimi decenni di correggere il comportamento dei poliziotti per via legislativa, dimostrando che le regole sono state sistematicamente violate, gli agenti hanno continuato a godere di antiche protezioni, i responsabili sono stati puniti in maniera episodica e inadeguata: “Perché mai dovremmo pensare che le stesse riforme possano funzionare ora? Dobbiamo cambiare le nostre richieste”, ha scritto Kaba, che invoca l’abolizione letterale della polizia e critica la proposta di Joe Biden, candidato democratico alla presidenza, di dare nuovi fondi ai dipartimenti per fare programmi di “community policing”. Se gli abusi dei poliziotti sono una questione sistemica, come si dice, e se questi s’innestano su un sottofondo razzista che è altrettanto sistemico, la soluzione per via riformista appare impraticabile.

  

Per questo anche gli attivisti che finora hanno chiesto tagli alle forze di polizia oggi sono incalzati da attivisti più radicali che chiedono lo smantellamento delle forze dell’ordine, senza mezze misure. Questa versione oltranzista è problematica da maneggiare. Perfino Alex Vitale, autore del libro The End of Policing e punto di riferimento nel dibattito, messo di fronte all’ipotesi abolizionista in senso stretto si trova a difendere progetti di riforma parziali e temporanei: “Quello di cui parlo è la revisione sistematica dei compiti specifici assegnati ai poliziotti e il tentativo di sviluppare alternative per ricostruire la nostra fiducia in loro”, ha detto in un’intervista. La deputata Alexandria Ocasio-Cortez, icona della corrente radicale del partito democratico, ha abbracciato la battaglia per il definanziamento, ma senza spingersi fino all’abolizione. Non serve un grande sforzo d’immaginazione per figurarsi come potrebbe essere una società in cui una parte dei finanziamenti destinati agli agenti vengono indirizzati altrove, ha scritto: “Assomiglia a un quartiere suburbano”. “Comunità bianche e benestanti vivono già in un mondo che ha scelto di finanziare i giovani, la salute, le politiche abitative più della polizia. Queste comunità hanno un tasso di criminalità inferiore non perché hanno più poliziotti, ma perché hanno più risorse per finanziare una società sana”. Si tratta di una variante dell’argomento riformista condiviso da molti, nell’ambito della sinistra, ma che non è perfettamente allineata con la posizione abolizionista.

  

Abolizione è termine fondamentale nella storia americana. Dall’abolizione della schiavitù presieduta da Abraham Lincoln – il quale però non era un abolizionista – è discesa quella che W.E.B. Du Bois ha chiamato “abolition-democracy”, la lotta per proseguire lo smantellamento delle istituzioni oppressive iniziata con una grande conquista ma che ben presto è stata ridimensionata dal fallimento della Ricostruzione. L’idea di Du Bois era che la struttura stessa della società americana, costruita su presupposti razzisti, avrebbe finito per ricacciare gli afro-americani nella precedente condizione di schiavitù, anche a dispetto delle conquiste legislative per affermare formalmente l’emancipazione e garantire l’uguaglianza. Il sistema penale e carcerario era il principale propulsore di questa regressione, il primo imputato di un sistema concepito all’origine come iniquo e discriminatorio, e nei decenni successivi alcune delle principali battaglie degli attivisti si sono concentrate sulle pene detentive obbligatorie per reati non violenti, sulla war on drugs e altre iniziative tese a criminalizzare le minoranze. Attivisti come Angela Davis portano avanti da decenni la causa dell’abolizione delle carceri, tema di cui il Pensiero dominante si è occupato in passato, e il libro “The New Jim Crow” dell’avvocatessa Michelle Alexander ha riproposto con forza la tesi secondo cui il sistema carcerario svolge di fatto quell’attività di discriminazione razziale che la legge sui diritti civili del 1964 aveva abolito di diritto. La questione degli abusi della polizia, che colpisce in maniera sproporzionata gli afro-americani, s’inserisce all’interno di questo più ampio dibattito sull’abolizione di un intero sistema che perpetua ingiustizie e discriminazioni, e anche la furia iconoclasta dei distruttori di statue insiste sullo stesso concetto: per cambiare davvero occorre abbattere, non basta avviare un percorso graduale di riforme. Per questo lo slogan “defund the police” è stato rapidamente affiancato e superato da “abolish the police”, il suo gemello massimalista che guarda con sospetto i tentativi di riforma. Uno sviluppo non semplice da gestire per chi, accodandosi alle proteste, pensa di cavarsela con qualche taglio ai finanziamenti della polizia.

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