Italiani, andate fuori! Siamo uno dei paesi che “esportano” meno calciatori al mondo. Giocare all'estero, però, conviene a tutti

    Forte è la tentazione di chiamarli bamboccioni. I calciatori italiani. Altro che cervelli in fuga. O, in questo caso, piedi buoni in fuga. All'estero i giocatori nostrani non ci vogliono proprio andare, preferiscono la bambagia dei campi di casa. Uno studio del Cies, l'osservatorio creato da Università e Cantone di Neuchatel in collaborazione con la Fifa, colloca l'Italia soltanto al 26° posto fra i paesi esportatori di calciatori. Subito dietro gli Stati Uniti, per rendere l'idea.

    Di primo acchito, verrebbe da dire: meglio così, in questo modo la Nazionale è tutelata, i migliori sono tutti sotto osservazione diretta del ct. Poi leggi i dati e ti accorgi che ai primi due posti nella graduatoria ci sono invece Brasile, il paese più vincente nella storia del calcio, e Francia, cioè gli attuali campioni del mondo. Nella formazione messa in campo da Deschamps a Mosca per la finale contro la Croazia c'era un solo giocatore appartenente a una squadra francese (Mbappé). Nelle formazioni dell'Italia nel barrage con la Svezia che ci eliminò dal Mondiale c'erano sia all'andata sia al ritorno nove titolari appartenenti a squadre italiane (eccezioni: Darmian e Verratti all'andata, Darmian e Gabbiadini al ritorno).

    Normalmente il numero degli emigranti è direttamente proporzionale alla precarietà della situazione socio-economica nella nazione d'origine. Nel rutilante mondo del pallone non è così. Inghilterra, Spagna e Germania, e cioè i paesi calcisticamente più ricchi, sia da un punto di vista strettamente economico, sia da un punto di vista sportivo, per qualità di gioco e quantità di top player impegnati nei rispettivi campionati, si situano rispettivamente al quinto, sesto e settimo posto nella classifica dell'export della pedata. Per quanto i dati riferiti all'Inghilterra siano un po' condizionati dalla migrazione “interna” verso Scozia e Galles.

    I numeri in questo caso sono importanti perché rappresentano differenze molto rilevanti e significative. Oggi i brasiliani all'estero sono addirittura 1.330 (quasi un quarto dei quali però, per ragioni di passaporto, finisce in Portogallo), mentre i francesi sono 867. Al terzo posto, sul podio c'è anche l'Argentina con 820. A seguire la Serbia (458) e i tre grandi d'Europa sostanzialmente allo stesso livello: 431 gli espatriati inglesi, 427 gli spagnoli, 394 i tedeschi. Lontanissima l'Italia con 144 emigrati, preceduta non solo da paesi di buona tradizione pallonara, come Uruguay, Portogallo, Olanda, Belgio, la stessa Russia, ma pure da un pezzo d'Africa (Nigeria, Ghana, Senegal, Costa d'Avorio) e dalla piccola Bosnia.

    La circolazione dei calciatori negli ultimi anni ha fatto registrare livelli di crescita esponenziali, e non soltanto all'interno dell'Unione europea. Non altrettanto si può dire a proposito dell'Italia. Almeno per quanto riguarda le operazioni in uscita. Perché la bilancia dei pagamenti dell'import-export del pallone è in clamoroso deficit. Se siamo, come abbiamo visto, al 26° posto nella graduatoria dei giocatori impiegati all'estero, siamo invece al secondo, dietro soltanto la superpotenza inglese, in quella degli stranieri accolti nei nostri campionati: oggi sono 636, rispetto ai 728 in Inghilterra, molti più che in Spagna (quarta con 516), Germania (settima con 379) e Francia (nona con 330). Se ci si limita a osservare i campionati di prima divisione, mediamente soltanto Cipro ha più stranieri per squadra in rosa, considerando quelli che sono scesi in campo almeno una volta: 17,5. La Serie A ne ha 16,1. La Premier League 15,2. In Spagna curiosamente ce ne sono più nei campionati minori che in Liga.

    Altro che prima gli italiani. Questi dati rendono ancora più macroscopico quel che già sapevamo. Si preferisce comprare giocatori all'estero piuttosto che crescerli in casa. Per pigrizia e doti manageriali non proprio lungimiranti. I settori giovanili nel corso degli anni sono stati così trascurati che oggi effettivamente i costi di acquisizione di uno straniero sono in realtà inferiori a quelli di maturazione di un calciatore cresciuto nel vivaio. Non sono stati fatti nei tempi giusti gli investimenti che sarebbero stati necessari. Ci sono lacune infrastrutturali spaventose: centri sportivi e campi d'allenamento, salvo poche eccezioni, sono scarsamente funzionali, oltre che scomodi da raggiungere; gli stessi istruttori sono spesso inadeguati. Non solo: i campionati giovanili, dai 17 anni in su, non sono sufficientemente formativi. E lo sviluppo del progetto delle seconde squadre da inserire nei tornei di Serie B e C, che si è rivelato fondamentale per la crescita dei calciatori in Paesi come Spagna e Germania, in Italia non ha decollato, con la sola Juventus. come sempre all'avanguardia, unica a iscrivere la sua Under 23 in Serie C, ma in realtà più per trovare un'occupazione ai giocatori in esubero che per arricchire l'esperienza dei suoi ragazzi migliori, come Kean o Nicolussi Caviglia, mai o quasi mai impiegati con la seconda squadra.

    Andare a giocare all'estero sarebbe ancor più utile se si considera la ritrosia degli allenatori italiani a lanciare i giovani. C'è voluta la scossa di Mancini, pronto a chiamare in Nazionale anche chi in campionato magari non aveva mai occasione di sperimentarsi, per vederne, in questa stagione, qualcuno in campo un po' meno sporadicamente. Persino la stessa Atalanta, il cui settore giovanile pure è considerato uno dei migliori d'Italia, se non d'Europa, quest'anno, per arrivare dov'è arrivata, in Champions e in finale di Coppa Italia, ha finito per impiegare quasi sempre otto-nove stranieri su undici: hanno trovato spazio, fra gli italiani, soltanto il portiere Gollini e il difensore Mancini, peraltro non cresciuti in casa, oltre allo stagionato Masiello. I frutti del lavoro di dirigenti e tecnici di Zingonia, in genere ancora prima della loro completa maturazione, vengono subito immessi sul mercato e ceduti al migliore offerente. Una politica che peraltro sta consentendo alla società di ottenere i risultati più brillanti della sua storia. Forse è un caso o forse no, ma i paesi che nell'ultimo anno hanno aumentato maggiormente la esportazione di giocatori sono quelli le cui Nazionali venivano da delusioni piuttosto importanti, soprattutto ai Mondiali di Russia: Brasile, Spagna, Argentina, Colombia (i soliti intrusi) e Germania. Come se si cercassero fuori dai confini nuove opportunità per arricchire non solo il patrimonio personale, ma anche il bagaglio professionale dei calciatori. Quello che hanno fatto soltanto pochi italiani in grado di dare qualcosa in più alla squadra azzurra: Verratti, Balotelli, Jorginho; a un livello un po' più basso Zappacosta, Darmian, Piccini; in un passato recente e con minor fortuna Immobile, Zaza e Gabbiadini; senza contare chi all'estero ci va per monetizzare o a fine carriera, come Buffon, Pirlo, Marchisio, Pellè. Fra i più giovani per ora ci sta provando soltanto Pellegri, centravanti nel 2001, cresciuto nel Genoa, promettentissimo, ma con un infortunio importante che ne ha un po' rallentato la carriera. Peccato.