(immagine via Flickr di Alberto Fava)

Contro la retorica della "fuga di cervelli"

Gli italiani, compresi quelli giovani, sono in movimento e la globalizzazione è una incredibile occasione per loro di spostarsi verso quei luoghi che offrono condizioni che a casa non si trovano.

Secondo il rapporto ”Italiani nel mondo 2016”, redatto dalla Fondazione Migrantes, il conteggio degli italiani residenti all'estero ha raggiunto, al 31 dicembre 2015, quota 4.811.163. Rispetto all’anno precedente c’è stato un incremento del 3,7 per cento. Nel 2016, oltre 100 mila italiani hanno lasciato il paese: diecimila in più rispetto al 2015. Aumenta inoltre la percentuale di connazionali che si trasferiscono definitivamente all’estero e, una volta partiti, non rientrano in Italia.

 

A emigrare sono soprattutto i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni, ma a differenza della generazione precedente, la loro non è una fuga, bensì "una scelta per coltivare ambizioni e nutrire curiosità". I giovani rappresentano oltre un terzo degli italiani residenti all’estero e nel 2015 si è registrato il picco delle loro partenze. “Il grave problema dell'Italia di oggi è proprio l'incapacità di evitare il depauperamento dei giovani e più preparati a favore di altri paesi”, commenta la Fondazione Migrantes nella premessa del rapporto.

 

Le destinazioni più ambite sono il Regno Unito, l’Argentina, il Brasile e la Spagna, paesi che hanno visto un’impennata della presenza di italiani durante gli ultimi anni.

 

Il rapporto Migrantes sottolinea che la mobilità dei millennials “è in itinere e può modificarsi continuamente perché non si basa su un progetto migratorio già determinato ma su opportunità lavorative sempre nuove”.

 


 

Un recente studio di Linkedin, la più grande comunità di professionisti in rete, ha dimostrato che negli ultimi anni il processo di migrazione dei cervelli si è invertito. Sono sempre di più, infatti, i professionisti e gli studenti che dai Continenti tradizionalmente ricchi (Europa e Stati Uniti) muovono verso i nuovi paesi ricchi, come Emirati, Arabia Saudita e India, ma anche verso paesi economicamente attrattivi anche che se politicamente o socialmente complessi, come la Nigeria o il Sud Africa, la cui classe media sta incontrando una crescita economica significativa.

 

La globalizzazione è una incredibile occasione per i giovani italiani per spostarsi verso quei luoghi che offrono condizioni che a casa non si trovano. E’ anche una magnifica opportunità per aprire le nostre porte a giovani e meno giovani altrettanto brillanti, del cui contributo può beneficiare il nostro progresso sociale ed economico.

 

I cervelli, compresi quelli italiani, non sono in fuga ma in movimento. Giovani talentuosi e motivati che vanno e che vengono: è questo lo spirito della globalizzazione. Ma in Italia, paese dove 2 milioni di ragazzi dai 15 ai 24 anni hanno scelto di non studiare e neppure provare a cercare un lavoro, la cultura della globalizzazione, la migrazione dei cervelli e la crisi economica sono diventati l’alibi per continuare a proteggere i nostri figli, destinandoli così alla paralisi e alla emarginazione. 

 

La diversità culturale e la modernizzazione del sistema educativo, invece, sono alla base delle economie innovative e creative, perché portano la capacità e la possibilità di guardare al mondo e alla risoluzione dei problemi con una prospettiva originale e diversa. Poter operare in un team con individui profondamente diversi è uno straordinario valore aggiunto. Le imprese sono alla ricerca di team funzionali, cioè squadre composte da individui con competenze diverse (l’ingegnere, il comunicatore, il matematico, chi si occupa di finanza o di marketing) e con una provenienza culturale lontana.

 

Secondo uno studio McKinsey, circa il 40 per cento della disoccupazione giovanile è attribuibile alla divergenza tra profili richiesti e competenze dei giovani. Le aziende chiedono, infatti, giovani diplomati e laureati che sappiano tradurre le buone competenze teoriche - che il sistema educativo è già in grado di fornire - in contesti concreti di lavoro.

 

La disoccupazione giovanile, quindi, non è solo legata ai cicli economici ma anche a una significativa distanza tra domanda e offerta di professionalità, che deriva da un persistente scarso dialogo tra il sistema educativo e il tessuto produttivo.

 

L’Italia, per le sue eccellenze manifatturiere e il suo mix di specializzazioni, dovrebbe puntare verso il modello di istruzione duale tedesco, fondato su un forte apprendistato in alternanza tra scuola e lavoro e su un'istruzione superiore a carattere professionalizzante, estesa fino al ciclo terziario e post terziario.

 

Entrambe queste due fondamentali dimensioni in Italia sono state colpevolmente trascurate. E solo negli ultimi anni iniziamo a recuperare il terreno. Il risultato di questo approccio è il più basso numero di giovani che in Germania abbandonano la scuola e che rimangono disoccupati, mentre il nostro sistema non riesce a dotarli degli strumenti necessari.

 

In Germania il numero di apprendisti è tre volte superiore ai nostri 450mila, e il 44 per cento degli iscritti universitari tedeschi rispetto al totale frequenta Fachhochschulen (Università di scienze applicate) e altre istituzioni professionalizzanti, mentre da noi a frequentare corsi accademici professionalizzanti è solo lo 0,4 per cento degli studenti universitari. In Italia solo il 4 per cento dei giovani tra 15 e 29 anni alternano studio e lavoro. In Germania questa percentuale supera abbondantemente il 20 per cento.

 

In un mondo globalizzato, in cui la competizione economica si gioca tra grandi aree metropolitane e territoriali, sono ancora troppo poche le regioni in Italia che si confermano un laboratorio di innovazione, in grado di competere con le regioni europee più avanzate e di offrire strumenti e buone pratiche per modernizzare il sistema educativo e il mercato del lavoro del nostro paese.