Ugo Nespolo, “Esuli”, 2016, acrilici su spolvero (dettaglio) 

L'urlo che non c'è

L'impotenza della critica di fronte alla barbarie

Ugo Nespolo

L’arte è uno specchio per riflettere sul male di cui l’uomo è capace. Oggi non ci si sente per niente protetti dall’inesistente baluardo della cultura contro l’arbitrio, lo sterminio, il sangue e la violenza

“Sono stanco e nauseato della guerra. La sua gloria è tutta una sciocchezza. Solo chi non ha mai sparato un colpo né udito le urla o i gemiti dei feriti può chiedere ad alta voce altro sangue, altre vendette, altra desolazione. La guerra è l’inferno”.

Generale William Tecumseh Sherman ai laureandi della Michigan Military Academy 1879



"È avvenuto quindi può accadere di nuovo. (…) Può accadere e dappertutto”. Primo Levi scrive con tutta la sofferenza di chi ha dentro la guerra, i suoi visibili ed invisibili orrori, sa del suo ruolo affilato e inappellabile come sostanza risolutiva di dispute internazionali per lo più poco intellegibili e quasi mai giustificabili, conosce quelle visioni da dipingere come danse macabre, sa della difficile partita a scacchi tutta bagliori nucleari su fondali apocalittici e violacei.

È Hannah Arendt a dirci dell’illusione per la quale il perfezionamento dei mezzi di distruzione, che hanno raggiunto livelli impensabili di sviluppo tecnologico, possano essere in grado di “fare scomparire la guerra”. Per lei “la ragione principale per cui la guerra c’è ancora non sta in un segreto desiderio di morte della specie umana, né in un insopportabile istinto di aggressione (…) ma nel semplice fatto che sulla scena politica non è ancora comparso nessun mezzo in grado di sostituire questo arbitrio definitivo degli affari internazionali”. Hobbes non diceva forse che “i patti senza la spada non sono che parole”?

 

Quasi veleno sottile che si spande e pervade la ragione, la violenza rimane onnipresente come elemento inalienabile al genere umano, guerra, tortura, persecuzione, sino alla festa macabra del massacro. Il denso volumetto curato da Maurizio Ferraris con Stefano Velotti sul tema della violenza tenta d’indagare, dal coté filosofico e letterario, fatto di considerazioni e documenti, proprio quel tema ponendo non pochi interrogativi davvero fondamentali. Ci si domanda se la violenza tra individui e gruppi sociali è inevitabile dal momento che appartiene alla nostra specie oppure si chiede se questo male è sempre qualcosa di esplicito e di deliberato, o può persino nascondersi in atti solo apparentemente non violenti. Come si può spiegare infatti quella “banalità del male” per cui esseri umani normali riescano a rendersi attori, complici e responsabili di crimini spaventosi? E poi. Esiste una guerra giusta? L’urlo “l’orrore, l’orrore!” a cui Kurz, il sinistro eroe di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, affida il senso della propria vita si può applicare tanto a un contesto arcaico come quello su cui ruotano le fantasie di Nietzsche in La nascita della tragedia, quanto al colonialismo belga di fine Ottocento, ma anche (come ha dimostrato Francis Ford Coppola riproponendo Conrad in “Apocalypse Now”) in una possibile guerra ipertecnologica e nucleare.

 

Come non indurci a pensare e credere che possa esistere una matrice comune che ci riporta all’origine della nostra specie, alla quale fare risalire “potere, potenza, autorità, forza e violenza”. Sia pure con la più che logica giustificazione dovuta all’anticipo sull’abisso di due guerre mondiali e lo specchio tragico della Shoah, il Manifesto del Futurismo, apparso sul Figaro nel 1909 a opera di Filippo Tommaso Marinetti, riesce a sintetizzare l’inaccettabile.

 

L’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà, il coraggio, l’audacia, la ribellione, il movimento aggressivo, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo, il pugno. E poi anche “nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo” ma più di ogni altra dichiarazione: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Marinetti dice di un “manifesto di violenza travolgente e incendiaria…”. Maurizio Ferraris sottolinea il fatto evidente che Marinetti intuiva forse “ciò che spiriti più profondi di lui non avevano capito”, che la modernità, al contrario di come aveva lasciato intuire e sperare lo spirito dei lumi, non si sarebbe manifestata con l’instaurazione della tolleranza ma “piuttosto con il perfezionamento tecnologico della violenza”.

 

Male profondo che sa presentarsi in forme articolate e velenose, perfida idra molto più assassina di come la sanno descrivere Simonide e Diodoro, bestia capace persino di assumere le placide sembianze di un obbligo dedicato all’esecuzione di un dovere. Basta pensare al processo Eichmann o agli studi del sociologo Wolfgang Sofsky a proposito di una violenza laboriosa ed economica, del tutto contrapposta a gesti impetuosi e appariscenti. Velotti mette in fila dichiarazioni di pensatori dalle opinioni diverse. Quello passato forse è “il secolo più terribile della storia occidentale”, scrive Isaiah Berlin, uno dei maggiori pensatori liberali del XX secolo, o addirittura “il secolo più violento nella storia dell’umanità” per il premio Nobel per la Letteratura 1983, William Golding. Si deve dire che si è trattato di un periodo storico “che ha suscitato le più entusiasmanti speranze che l’umanità abbia mai avuto e che ha cancellato tutte le illusioni, tutti gli ideali”, a sentire il violinista Yehudi Menuhin, “solo un secolo di massacri e guerre” per René Dumont, agronomo ed ecologista. Se il secolo passato ha proiettato lunghe ombre scure sulle prospettive di benessere ed armonia dell’intero pianeta, si deve dire che il secolo da pochi anni iniziato ha già esposto il suo volto torvo e problematico, fatto di malattie terribili, violenza diffusa, ingiustizie, guerre sempre più cruente, distruzioni indiscriminate e raccapriccio.

 

È ancora Stefano Velotti che si domanda qual è la posizione della filosofia di fronte all’orrore umano. Caduta la fiducia nella provvidenza divina, la fatica a prestar fede ai “piani nascosti e per noi imperscrutabili con cui Dio governerebbe il corso del mondo”, dovrebbe valere la fiducia nei prodotti delle nostre menti, nella razionalità e nell’ingegno, nella sensibilità artistica, nei valori positivi e costruttivi della cultura tutta. Ma le cose sembrano invece muoversi in direzioni diverse e inspiegabili. Intorno a noi azioni delle quali nessuno sembra riconoscere la responsabilità, impossibili risposte alle domande sulla reale possibilità di compiere gesti di orrore come la trasformazione di un padre di famiglia in un aguzzino o popoli ricchi di civiltà e cultura che approvano lo sterminio di uomini, donne e bambini di etnie diverse.

 

Ancor più sconvolgente il fatto oggettivo che non soltanto la lettura e la comprensione degli orrori passati non abbiano mai impedito la loro riedizione persino in modi più radicali ma, come scrive Norberto Bobbio a proposito della guerra, “nessuna condanna da qualunque pulpito pronunciata (…) ha mai impedito la sua giustificazione, non solo in sede di giudizio storico ma anche in sede di giudizio morale”. Insomma questi scandali della storia per Bobbio hanno “sempre trovato di volta in volta da una parte o dall’altra i loro apologeti”.

 

Theodor Adorno indica sicuro come “Auschwitz ha dimostrato infallibilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che esso, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini”. E poi: “Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura” (in Dialettica Negativa).

 

Adorno, e ora anche noi dopo tanto male, la Jugoslavia, i massacri ucraini e tutto il resto, non ci si sente per niente protetti dall’inesistente baluardo della cultura contro la barbarie quotidiana, l’arbitrio, lo sterminio, sangue e violenza. Cultura e critica della cultura si sono mostrate quasi sempre impotenti ed evasive, quindi complici – adattandosi volentieri al ruolo comodo, esornativo ideale per coprire e dimenticare, fare voltare lo sguardo altrove. Mentre per Adorno l’unica possibilità di esercitare decentemente la filosofia è data dall’esercizio di un pensiero che pensi, arde negli oziosi labirinti della cultura figurativa tutta l’imperativo di evitare il ruolo laterale dell’artista come “cretino di genio”, quello insomma che sa muovere soltanto la mano e si trascina in comode ripetizioni nel suo fare clownesco e marginale, tutto immerso, come avrebbe detto Jean Dubuffet, nel brodo di quell’“asfissiante cultura” nella quale ogni rilievo critico, ogni progetto influente e contro è messo a lato e bandito all’origine.

 

Per la verità il corpo molle dell’Artworld è stato nel tempo non poche volte trafitto da pennelli sensibili e pensanti, da uomini avversi a tutti, e non pochi, dogmatismi cultural-politici o pseudocritici, per stagliarsi – nella differenza dei secoli e degli stili – come nette figure d’intellettuali trasversali e radicali, talvolta gente scomoda ed avversata, gente pronta persino al rogo di Campo de’ fiori.

Per dire allora di opere influenti, quelle in cui si può oggi, alla luce del dilagare del male, delle persecuzioni, ingiustizie e violenze che intossicano il pianeta, rivivere come in uno specchio la sofferenza di chi le ha pensate e prodotte: conviene partire dalla visione del Polittico di Issenheim di Matthias Grünewald, dipinto tra il 1512 e il 1516 e ora conservato nel Museo di Unterlinden a Colmar. Opera sconvolgente, grandiosa macchina pittorica fatta di ante apribili in cui il grande scomparto centrale con la Crocifissione è il fulcro di quella che è da considerare l’essenza del pathos e della tragedia, la morte del Cristo e insieme la sconfitta di Dio e dell’uomo. Sono gli stessi anni in cui le armonie e l’ottimismo rinascimentale fioriscono in Italia e non dicono del dolore di quel Crocifisso, di quel corpo verdastro e dilaniato dalle piaghe della peste, dalla sua sconfitta rattrappita in un urlo spento, in quei piedi “girati intorno ai chiodi come su cardini di una porta, voltandosi dall’altra parte”. Quest’Opera, che tutti dovrebbero vedere, per secoli nascosta e conservata dai monaci nel borgo di Issenheim, ha – non senza una ragione – diffuso la propria influenza sugli Espressionisti europei del XX Secolo, il secolo del Terzo Reich.

 

Col balzo di un secolo, sull’onda della nascita del tumultuante barocco europeo sarà l’opera straordinaria di Pieter Paul Rubens che nel 1638 produce una tela di straordinaria attualità, “Le conseguenze della guerra”, opera di grandi dimensioni conservata nella Galleria Palatina nella Sala di Marte a Firenze. Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, parla di un quadro “capace attraverso la sua potenza espressiva di farci sentire il dolore, la brutalità e la tragedia della guerra, di farci riflettere sulla sua assurdità”. Allegoria complessa, l’Europa dell’epoca dilaniata dalla Guerra dei trent’anni, il tema dei disastri generati dagli eventi bellici. Marte con spada e scudo trascinato dalla furia Aletto, simbolo della discordia che brandisce un tizzone accesso come per infiammare gli animi. Disprezzo dei libri e della cultura, l’Europa come donna abbigliata in nero tende le braccia al cielo in segno di disperazione. Visione profetica.

 

Non pochi studiosi tendono ad imparentare strettamente l’opera di Rubens a “Le Radeau de La Méduse” di Théodore Géricault, manifesto autentico della rivoluzione romantica e realista, caposaldo vibrante come sintesi dell’ingiustizia e della disperazione dell’uomo. Opera monumentale di sette metri di base dipinto a soli ventinove anni quasi per urlare al mondo la tragedia della fregata Méduse partita da Rochefort verso il porto di Saint-Louis ed incagliatasi per l’incapacità del comandante nei bassi fondali della Secca di Arguin a 160 chilometri dalle coste della Mauritania. Centoquarantasette naufraghi furono imbarcati su una zattera di fortuna e presto abbandonati al loro destino. Morte, disperazione e cannibalismo trasferite a Géricault dai due sopravvissuti Savigny e Correard.

 

Scandalo politico, vergogna per il disprezzo umano, imbarazzo per la monarchia francese. Il pittore, allestito un grande, gelido atelier nei pressi dell’ospedale Beaujon di Parigi, s’esercitò in centinaia di studi con frammenti di cadaveri, teste di ghigliottinati e arti amputati sino alla nausea della decomposizione. Otto mesi di maniacale lavoro per un’opera lontana dalle fredde e accademiche celebrazioni dei riti neoclassici. Colori a olio molto viscosi e di essiccazione rapida, uso del bitume per incupire la torbida atmosfera e la tragicità della visione. Urlo ancora e sempre alto e palpitante che riverbera cent’anni dopo (1924) nel drammatico ciclo delle cinquanta acqueforti “Der Krieg” di Otto Dix, sconvolgente testimonianza delle barbarie vissute nella guerra di trincea fatta di armi chimiche, nemici invisibili e combattimenti senza eroi, macabre visioni dell’apocalisse, inumanità ed efferatezze del conflitto mondiale scavato con i bagni acidi nelle lastre di zinco e stampato con il nero degli inchiostri, capaci di suscitare repulsione e orrore nel rapporto con il bianco degli scheletri congelati e delle maschere antigas, degli spari, dei suicidi e dei paesaggi annichiliti. Un autentico carnevale della morte che troverà un epilogo nel “Trittico della guerra” realizzato a Dresda nel 1934 a un anno dalla presa del potere da parte di Hitler. Dix considerato artista degenerato, le sue opere esposte come tali per essere infine bruciate.

 

La legione Condor con elementi della Luftwaffe e della Regia aviazione legionaria italiana il 26 aprile 1937, in una terrificante dimostrazione di forza contro la popolazione civile, radono al suolo in un bombardamento terroristico la cittadina basca di Guernica. Il governo repubblicano spagnolo, che già aveva commissionato a Pablo Picasso un dipinto per rappresentare la Spagna all’Esposizione mondiale di Parigi del ’37 induce l’artista, a seguito di quell’evento sconvolgente, a concepire la grande tela che sarà presto universalmente considerata il manifesto della crudeltà e dell’arbitrio delle guerre. Deformazione di corpi, scure gole che, nei toni del grigio e del nero, lanciano urla disperate alla distruzione di un paesaggio ghiacciato dalla morte.

 

È lo stesso ghigno repellente della guerra che abbandona la visione elegiaca, epica e corale picassiana e si raggruma nell’approccio viscerale e surreale del “Visage de la guerre” che Salvador Dalì concepisce nel 1941 con l’uso di quell’automatismo psichico e, come definito dall’artista, dal metodo paranoico-critico. Maschera della morte, moltiplicazione infinita del male, dominio del teschio, della dissoluzione e dell’abbandono. Stesso soggetto che Dalì aveva ideato per le sequenze da incubo del film “Moontide”, immagini poi rifiutate per il raccapriccio che avrebbero procurato allo spettatore. Proprio forse lo stesso sconcerto che genera la vista della drammatica opera di Francis Bacon del 1944 “Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion”. Si deve fare un balzo all’indietro per lasciarci ferire dalla più eloquente, più vasta testimonianza di un artista verso la guerra, senza dubbio alcuno rappresentata dall’opera di Francisco Goya nelle ottanta acqueforti definite per brevità “I disastri della guerra” ma dal titolo originale di “Fatali conseguenze della sanguinosa guerra in Spagna con Bonaparte, e altri capricci enfatici”. Incise tra il 1810 e il 1823 rappresentano per Robert Hughes “l’origine di un vero genere: quello del giornalismo per vivide immagini”, una sorta di obiettività fotografica “prima della macchina fotografica”.

 

Sin dal momento in cui la dinastia Borbone si vendette a Napoleone a Bayonne, l’artista fu ossessionato da quelli che chiamerà “tristi presentimenti di ciò che accadrà”. La leggenda racconta di come Goya a Madrid nel maggio 1808 possa avere assistito a massacri, esecuzioni notturne, come quelle alla Montaña del Príncipe Pío, alla violenza nelle strade con i madrileni che armati di sole asce e bastoni fronteggiavano il potente esercito napoleonico.

 

Gli anni dal 1808 al 1814 son stati anni di terrore, stupri, sangue, patrioti torturati, impiccati, smembrati e poi tradimenti, delazioni: tutti gli ingredienti del catalogo degli orrori bellici. Goya con occhio febbrile costruisce il racconto di un dramma umano antico e purtroppo sempre nuovo, il dramma molto crudele delle vittime nelle mani arrossate dei loro carnefici. Gli eroi di queste lastre di rame sono oscuri uomini e donne e i titoli che raccontano le tavole sono strazianti: “Seppellire e tacere”, “Al cimitero”, “Non si può guardare”, “Anche peggio”, “Non si può sapere perché”. Proprio le stesse domande che ci poniamo noi oggi.

Di più su questi argomenti: