Da Banksy a Ai Weiwei, che cos'è l“artivismo” secondo Vincenzo Trione

Andrea Minuz

Impegno “decorativo” o provocazione: indagine sulla fascinazione politica dell’arte

"Oggi il mondo è straordinariamente bello”, scriveva Yves Michaud, all’alba del XXI secolo, in apertura del suo celebre “L’arte allo stato gassoso”. Il trionfo dell’estetica nelle nostre vite era ormai un fatto compiuto e c’era di che rallegrarsi. L’arte non era più un elenco di opere chiuse nei musei. L’arte era scomparsa per reincarnarsi nell’esperienza di ogni giorno, dal design alle riviste patinate, dalla chirurgia estetica alle sfilate di moda, e naturalmente performance e installazioni diffuse un po’ ovunque, nelle Biennali come negli outlet. All’epoca acclamata come innovativa e dirompente, la tesi di Michaud, affidata a un titolo fortunato, appare ora invecchiata di colpo, come un’ultima spruzzata di pensiero debole o debolissimo dei beati anni Ottanta, evaporata con la crisi economica del 2008, il climate change, il MeToo, il Black Lives Matter, le battaglie di genere, il terrorismo fondamentalista e tre anni di pandemia globale. Vent’anni dopo l’11 settembre, il mondo è un po’ meno “straordinariamente bello”.

   

L’arte, naturalmente, si adegua. Nell’epoca della graphic novel e della street art, ecco il vistoso ritorno dell’impegno civile, come nella grande stagione dei Marcuse, degli Adorno, del “tutto è politica”. Ecco un’arte non più sotto il segno dell’ideologia o della politica nella loro accezione novecentesca, ma attraversata da un più sfuggente e imprendibile “attivismo globale” (che sta alla politica come la spiritualità alla religione: non ci sono testi sacri, scuole, manifesti, ma sensibilità diffuse, pulsioni, “urgenze”). E’ insomma più complicato capire le forme e i modi dell’arte politica di oggi, anche perché “gli scenari più drammatici del nostro tempo, spesso, non evocano più choc, né rischi e neanche timori”, esistono soprattutto come “proiezioni, schermi, simulacri, spettacoli a oltranza, fatti di immagini prodotte dai media”, scrive Vincenzo Trione in “Artivismo”, uscito da poco per Einaudi, una ricognizione critico-fenomenologica su “arte, politica e impegno” nel XXI secolo.

   

Un contributo decisivo per districarsi in un territorio complesso, contraddittorio, ambiguo, che gode oggi di grande popolarità, dentro e fuori il mondo dell’arte, ma anche di scarsa riflessione teorica. Il neologismo viene fuori dalle periferie della street art messicana di fine anni Novanta. Poi, per estensione, da tutte le “interferenze culturali” e i détournement urbani a metà fra creatività e agit-prop (flash-mob, graffitismo, teatro di strada). Poi sono arrivate le mostre, le celebrazioni ufficiali, le Biennali sempre più “impegnate”, e naturalmente il caso Banksy o le provocazioni anche politiche di Cattelan. Ma la consacrazione dell’artivismo, ricorda Trione, risale al 2020, “quando la rivista inglese ‘Art Review’ ha posto in cima alla classifica delle personalità più influenti dell’art system il Black Lives Matter”.

   

Il caso di Ai Weiwei, artista cinese e icona dell’attivismo globale, è emblematico. Prima ancora dei critici o dei curatori, la patente di artista “politico” gli fu riconosciuta dalla Lego nel 2015, quando l’azienda danese gli negò una fornitura di mattoncini colorati per un’installazione alla National Gallery of Victoria di Melbourne, preoccupata per il loro eventuale uso “politico” (e dunque intimorita dalle possibili reazioni cinesi). L’arte contemporanea gioca in fondo anche su questo. Sulla facilità con cui un gesto, un oggetto, un brand possono assumere oggi una valenza “politica”. Trione ricostruisce così le logiche di questa progressiva politicizzazione dell’art system, variegata, frastagliata, irriducibile a una linea condivisa ma comunque “in polemica con la dilagante superficialità trionfante del sistema dell’arte” (quella di cui si faceva beffe un film intelligente come “The Square”, Palma d’oro a Cannes, nel 2017, opera che a suo modo, scrive Trione, “si interroga sui tanti equivoci dell’arte impegnata”, tra performance e installazioni più o meno assurde, e un’idea di arte come “spazio all’interno del quale il pubblico si sente partecipe di alcuni drammi della nostra epoca”).

   

C’è sempre in questi casi il rischio di un impegno “decorativo”, di sentimenti anche altissimi ma pretestuosi, del famigerato “ricatto morale del contenuto”, rifugio degli artisti mediocri: messo di fronte a un’opera d’arte o un’installazione che racconta la tragedia dei migranti, come faccio a dire che magari è “brutta”? A questo paradosso costitutivo dell’arte alle prese con l’impegno civile, è dedicato un capitolo decisivo di “Artivismo”, “Controdiscorso sull’arte politica”, dove si riparte, non a caso, proprio dal caro vecchio Marcuse: “Il potenziale politico dell’arte risiede solo nella sua dimensione estetica” (sono tempi in cui si rimpiange un po’ tutto, anche la Scuola di Francoforte).

   

Riprendendo qui un metodo già messo a punto nel suo “L’Opera interminabile” (sempre Einaudi), Trione costruisce pagina dopo pagina un “piccolo museo dedicato all’arte politica contemporanea”, abitato da Banksy o Anselm Kiefer, El Anatsui o Mimmo Paladino, ma anche da Björk, dal cinema del reale di Gianfranco Rosi o Crialese, da Zerocalcare, da Iñárritu e la sua “Carne Y Arena”, installazione immersiva, metà virtuale, metà post-neorealista, sui migranti messicani che provano a varcare il confine,  presentata alla Fondazione Prada nel 2017. E insieme alle opere e agli artisti c’è il dialogo a distanza con le teorie estetiche di Benjamin, Brecht, Adorno, Camus, risalendo fino a Constantin Guys, bozzettista, illustratore di guerra in Crimea, modello del baudelairiano “peintre de la vie moderne”, emblema dell’artista capace di abitare aporie e contraddizioni dell’attualità e della cronaca, “un modello per gli artisti politici di oggi”.

   

Si attraversano insomma i generi, le forme, i discorsi, senza alcun timore di passare dalla testimonianza alla poesia, dalla street art al cinema, dall’arte concettuale più raffinata e ultraborghese alle rivolte dei collettivi. Se ne “L’Opera interminabile” si metteva in crisi l’idea di museo, qui ci si lascia alle spalle quel sistema di barriere, muri e reciproche diffidenze tra forme artistiche stabilito per lo più dagli studiosi, celebrato nei dipartimenti umanistici, ma sempre più anacronistico o incomprensibile agli occhi degli spettatori. 

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