Il Teatro Galli di Rimini visto dall'esterno (foto Ansa)

Dalle macerie allo splendore. La storia di un vecchio teatro restituito al presente

Stefano Picciano

Le celebrazioni per il "Galli" di Rimini, distrutto dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale e ricostruito dopo 75 anni. Chi vi fa ingresso oggi si trova immerso in un vertiginoso luogo di ricordi e suggestioni

È da tempo che sogno un’Italia nella quale ogni città che abbia un teatro – come è successo qui – lo possa riaprire”, per “tornare alla storia grandiosa del nostro passato, alle radici che non devono essere dimenticate”. Riccardo Muti non usa mezzi termini, nel suo saluto al pubblico, durante la serata di apertura della stagione, alla presenza del presidente della Repubblica e dinnanzi a tante persone liete di ritrovare un luogo che sembrava ormai destinato all’oblio. Si guardano attorno, all’atto di entrarvi, meravigliate nel trovare un ambiente quasi in tutto identico a quello che si vede nelle fotografie di un’epoca ormai lontana: la platea, i palchi, gli arredamenti, ogni singolo fregio è stato studiato e ricostruito nella fedeltà al progetto originario, per restituirlo alla città in un atto pieno di consapevolezza del valore della cultura: “Se togliamo ai nostri figli – ha detto ancora Muti in quell’occasione – la possibilità di avvicinarsi all’arte, alla poesia, alla bellezza, in una sola parola alla cultura, siamo destinati a un futuro di gente superficiale. L’Europa ha alle spalle una storia importantissima (...). Ora non può dimenticarla”. 

Dal giorno dell’inaugurazione, nell’ottobre del 2018, al Teatro Galli di Rimini si sono susseguiti una serie di ospiti illustri. A partire dalla prima serata, affidata a Cecilia Bartoli nel ruolo della Cenerentola rossiniana: quando le iniziali note da lei cantate si sono fatte largo tra quei muri rompendo un così lungo silenzio, un applauso commosso, infrangendo le norme teatrali, ha salutato il teatro tornato a nuova vita. Poi Riccardo Muti, Jordi Savall, Riccardo Chailly, per citare solo alcuni dei maestri che da allora hanno preso parte a questa nuova pagina di storia.

Una storia travagliata, iniziata nella tarda mattinata del 28 dicembre 1943. Era ormai mezzogiorno quando i riminesi avvertirono il rumore di aerei in avvicinamento e ci fu chi, mentre cercava riparo, poté contarne qualche decina prima di sentire le esplosioni. Erano i giorni più drammatici degli eventi bellici che coinvolsero la costa adriatica presso Rimini facendone uno dei centri maggiormente colpiti dalla furia della guerra. Le bombe degli alleati caddero anche sullo storico teatro, con conseguenze destinate a protrarsi a lungo nel tempo: i suoi muri sarebbero rimasti, nei settantacinque anni seguenti, come irrequieta rovina posta nella più importante piazza della città, quasi una sorta di ferita aperta – che non si poteva risanare ma nemmeno dimenticare – a fianco degli storici palazzi comunali e non lontano dal sontuoso Castel Sismondo che oggi, con fascinoso coup de théâtre, viene talora mostrato al pubblico attraverso l’apertura di una grande porta sulle quinte. 

L’inaugurazione di quel nuovo tempio della musica, in una Rimini di solo trentamila abitanti alle prese con una incipiente industria balneare, si era avuta nel 1857 niente di meno che alla presenza di Giuseppe Verdi, giunto a Rimini per mettere in scena Aroldo, melodramma appena ultimato e destinato – per volontà del compositore stesso – all’inaugurazione del teatro. Verdi arrivò in città in luglio e vi si trattenne per circa un mese: fonti attendibili lo ricordano passeggiare sul litorale, o fermo dinnanzi al mare a contemplarne la vastità, specie nei giorni di burrasca, che egli amava particolarmente.  Complice anche l’attrattiva esercitata dal mare, si ebbe da allora una lunga serie di fiorenti stagioni liriche. Le fonti documentano una ricca vitalità musicale a cavallo del secolo e nei primi decenni del Novecento, fino a quel 28 dicembre 1943, quando gli aerei anglo-americani, da un’altezza di circa seimila metri, sganciarono su Rimini alcune centinaia di bombe. I soldati rientrati dalla guerra, più tardi, avrebbero raccontato che all’arrivo a Rimini non era possibile trovare la via di casa tanto la città era abbattuta e dunque priva di punti di riferimento per orientarsi. 

Dapprima occupato dai militari, nell’immediato Dopoguerra l’edificio fu oggetto di ripetuti saccheggi e insensate demolizioni che lo privarono degli arredamenti ancora intatti; adibiti in seguito a magazzino, poi a palestra e infine abbandonati, i resti del teatro attraversarono la seconda metà del Novecento in una mesta trascuratezza, mentre l’esplosione della vocazione turistica e balneare della città sembrava mettere in secondo piano l’attenzione verso i valori della cultura. Si parlò di ricostruzione a più riprese, ma i tempi necessari all’azione parvero lunghissimi, e protrassero l’attesa di molti riminesi che, finalmente, oggi hanno visto risorgere il teatro – nel frattempo intitolato ad Amintore Galli – sottratto alle generazioni precedenti: si tratta di una riconsegna che ha per destinatari coloro che, se non nella contemplazione delle sue mute rovine, non avevano mai avuto effettiva esperienza di quel luogo, eppure ai quali – in una suggestiva immagine di eredità e memoria tra le generazioni – in qualche modo apparteneva.

Giungiamo così ai nostri giorni: dopo settantacinque anni esatti dalla sua distruzione, il teatro – sotto il quale erano nel frattempo affiorati pavimenti, murature e corredi di epoca romana, nonché le fondamenta di una basilica paleocristiana – viene finalmente restituito al presente. Gli eventi di Rimini si configurano, così, come un virtuoso esempio di rinascita culturale e di consapevolezza del valore dell’arte per la vita dell’uomo: chi giunge tra le mura del Teatro Galli si trova oggi immerso in un vertiginoso luogo di ricordi e suggestioni, un fascinoso spazio carico di memorie drammatiche e a un tempo gloriose. E’ il nuovo che ci parla dell’antico, ed è al contempo l’antico che si riaffaccia al presente dopo aver atteso, per decenni, in silenzio, con quella pazienza che solo l’arte conosce. Con quella fedeltà – vorremmo dire – con cui la bellezza dell’arte torna sempre, discretamente, a parlare agli uomini. 

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