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FACCE DISPARI

Claudio Gubitosi alias Giffoni, il paese che diventò cinema

Francesco Palmieri

Settant'anni a ottobre prossimo, di cui cinquantuno dedicati al festival cinematografico che ha come protagonisti bambini e ragazzi. Un'idea che prende forma in un sabato piovoso del novembre 1970: da allora milioni di giovani hanno partecipato all'evento, rendendo un piccolo paese del salernitano il centro del mondo 

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Mannaggia all’enfasi e alle frasi fatte nemiche della scrittura. S’è detto così spesso “la magia del cinema”, che quando parli della storia di Claudio Gubitosi e del Giffoni Film Festival (o viceversa, è la stessa cosa) non puoi ricorrere all’espressione giusta perché è consumata. Lui settant’anni a ottobre prossimo sotto il segno della Bilancia. Cinquantun anni il Festival dedicato a bambini e ragazzi, che nacque senza un soldo nel 1971 e oggi è tra i più importanti nel mondo. #Giffoni50Plus è il titolo dell’edizione di quest’anno, per sottolineare quanto la scorsa fosse condizionata dalla pandemia. Dal 21 al 31 luglio tremila giovani giurati saranno in presenza nella cittadina campana e altri duemila in streaming da dovunque con 120 ospiti e oltre cento titoli in concorso da una trentina di paesi. Ecco la “ripartenza”. Che detratta la retorica vuol dire: non si può riprendere dal “dov’eravamo rimasti” nel 2019.

 

Gubitosi, la sua storia col cinema sembra un film sul cinema, una favola da Oscar tipo il capolavoro di Tornatore. A 17 anni quale demone la invasò, qui a Giffoni Valle Piana?

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Vedevo in tv da questo piccolo paese, all’epoca 8.500 abitanti, i fasti degli altri pianeti: Cannes, Venezia, Berlino. Pensavo: devo rifarlo qui, a casa mia, ma dovrà essere un’altra cosa.

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Non le pareva un delirio? Pardon, un sogno impossibile?

Stando ai fatti sì, ma non ho mai dubitato di riuscirci. Per due anni io e il Festival siamo stati studiati dalla George Washington University per capire come fosse stato possibile che un ragazzo senza nessuna tradizione familiare nel cinema, in un ambiente avulso da qualsiasi propensione favorevole, avesse realizzato l’impresa.

 

Il segreto?

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Il concetto di “Oltre”. Ho sempre voluto sapere cosa ci fosse oltre le montagne della mia valle. E comunicare oltre me stesso, agli altri, quel che vivevo come pura bellezza: il cinema. Qui a Giffoni non c’era niente di cui discutere, c’era stato il ’68 ma così lontano che in paese neanche avevamo qualcosa contro cui protestare. Il cinema era l’unica possibilità di capire e di parlare col mondo.

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La magia del cinema, lasciamocelo dire.

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Proprio così. Per fortuna a Giffoni c’era un’antica presenza cinematografica, con una sala aperta già nel 1926. Quando ero ragazzo esistevano due cinematografi: il Valle e il Moderno che aveva anche l’arena estiva, dove a 12-13 anni mi accompagnavano mia zia o mia sorella maggiore perché noi abitavamo in un’altra frazione un po’ più lontana. Vedevo ‘Catene’, ‘Sedotta e abbandonata’, ‘Non c’è pace tra gli ulivi’ e pensavo: ma ci saranno pure altre cose, vorrei scoprirle e farle scoprire agli altri. Per vedere tutti i film, non avendo soldi, chiesi al proprietario del cinema di prendermi come apprendista operatore. Così proiettavo e guardavo le pellicole dalla cabina. Sono cresciuto col mondo di Pasolini e di Fellini, mentre sentivo che il neorealismo era già un’espressione del passato. Mi è interessato sempre guardare avanti, difatti in seguito avrei programmato a Giffoni tutti i film di Carmelo Bene, proprio perché così discusso e spesso mal sopportato.

 

Nel ’71 parte la sua benedetta follia. La prima edizione del Festival.

Mi ricordo precisamente che era un sabato noioso e per giunta pioveva: 20 novembre 1970. Stavo nella piazza del paese e mi sentivo molto tormentato finché non dissi a me stesso: “Lunedì si parte”. Quasi un proposito metafisico, perché già Salerno che è a 24 chilometri mi sembrava Los Angeles.

 

Come trovò i mezzi?

Nei primi anni riuscii ad avere gratis la disponibilità del cinema. I soldi, pochissimi, li trovai grazie ai preti: avevo imparato a suonare l’organo in chiesa per guadagnare qualcosa, perché a Giffoni non c’erano organisti. Mi chiamavano per messe cantate, funerali, matrimoni. Gli ospiti del Festival, nei primi anni, furono alloggiati nelle celle del convento e il refettorio adibito a mensa. Qualche volta mettevo a disposizione la casa dei miei genitori, i quali pur non capendo cosa andavo facendo mi aiutarono sempre. Una volta mamma cucinò per venticinque ragazzi turchi.

 

Il Festival intanto cresceva. E anche lei. Suonando l’organo.

No, bandirono un concorso per un posto di dattilografo al Comune. Partecipai e vinsi. Mi mantenevo così. Intanto, dall’hobby della fotografia ero passato a fare cinema amatoriale in Super 8 con una piccola cinepresa tedesca. Realizzai due titoli: ‘L’età dei sogni’ e ‘L’avventura di un povero diavolo’, di 40 minuti ciascuno. Una svolta importante fu l’abolizione della sezione per ragazzi al Festival del Cinema di Venezia. All’epoca l’età media degli spettatori andava dai 40 ai 60 anni, perciò ai ragazzi non si dedicava attenzione. A Giffoni andavamo controcorrente.

 

L’anomalia ha pagato.

Ho imparato una morale: le anomalie racchiudono grande potenza. Come quella che si può realizzare una gran cosa anche in un piccolo paese. Se uno pensa a Venezia pensa a mille fatti oltre al festival. Ma se uno pensa a Giffoni pensa subito al Festival e viceversa. S’identificano. Ventuno anni fa inaugurammo la Cittadella del Cinema, tre anni fa la Giffoni Multimedia Valley, un progetto da 30 milioni di euro finanziato dall’Europa con una ricaduta importantissima sul territorio. Per chiarire sottolineo un dato del 2019: per ogni milione che lo Stato investe su Giffoni noi ne restituiamo 2,8. Oggi ci sono 140 persone che lavorano qui tutto l’anno e nel periodo del Festival attiviamo oltre 500 contratti di collaborazione. Abbiamo sale multimediali all’avanguardia in Europa e tra breve sarà realizzata un’arena da 4.300 posti per i grandi eventi. Il Comune è coinvolto in tutte le operazioni perché lo ripeto: Giffoni è il Festival e il Festival è Giffoni.

 

Una sorta di miracolo oppure è replicabile?

Ci sono due parole che non m’interessano: una è “miracolo”, che vorrei sostituire con la parola “normalità”. Io ho lavorato per la normalità. La seconda parola che non m’interessa è “stanchezza”. Non mi sono mai stancato, in cinquantun anni, del lavoro per cui vivo. Se ami le cose che fai l’amore lo trasmetti.

 

Anche ai ‘big’. Da Giffoni ne sono passati tanti.

Si fa prima a dire chi non è venuto. Tra gli ospiti cito solo qualche nome: Gorbaciov, Meryl Streep, François Truffaut, Robert De Niro…Ricordo che De Niro, nell’82, annunciò sui giornali che non sarebbe andato a Venezia e sarebbe venuto qui. Ma ero preoccupato che all’ultimo momento potesse dare forfait, così m’inventai che voleva tornare nelle zone da cui presumeva venissero i suoi bisnonni. Per anni tutti credettero a questa piccola bugia.

 

Soprattutto, milioni di ragazzi in cinquantun anni sono passati per Giffoni o conoscono di fama il Festival.

Siamo un esempio umanistico. La mia maggior soddisfazione sono le lettere di genitori o docenti che mi dicono: il ragazzo è cambiato, prima non ci dava retta, non parlava, dopo l’esperienza da giurato racconta di tutto. Da 53 nazioni sono venuti in un paesello campano per incontrarsi. Persino israeliani e palestinesi, giovanissimi che seduti nello stesso ristorante si scambiavano opinioni. Quando ho aperto, quindici anni fa, la sezione per la giuria dei bambini da tre a sei anni sono stato criticato. Vedesse invece la gioia di un piccolo che è deputato a dire, semplicemente, se un film gli è piaciuto o no. Giffoni insegna a scegliere, ma è ciò che per tutta la vita sarai chiamato a fare. Scegliere. Nel mondo non c’è esperienza simile alla nostra. Ho dovuto aprire anche una sezione per gli ultradiciottenni, i ‘giffoners’ che non volevano mollare il Festival, anzi la Giffoni Experience, come l’ho chiamata dal 2009. Perché il concetto di festival cinematografico stava ormai stretto a tutte le attività che svolgiamo durante l’anno.

 

Riassuma un breve un messaggio ai ragazzi.

Preferisco sottolineare cosa non dirgli mai: voi siete il nostro futuro. Non c’è frase più micidiale e volgare, perché si traduce in un annullamento del loro presente.

 

Lei ha presentato il programma di quest’anno a Bergamo, città simbolo della pandemia. Ma i rischi retorici della parola “ripartenza” sono parecchi. Come consiglia di evitarli?

Non si può ricominciare dai programmi del 2019 come se niente fosse accaduto. A giugno scorso ho riunito centoventi direttori di festival italiani, che sono una vera ricchezza nazionale. Bisogna rimettersi in moto assieme evitando le rivalità locali ed elargire la ricchezza delle periferie: ognuno di questi eventi di provincia fa girare il motore dell’Italia e se un piccolo evento muore, muore il paese che lo ospita. La pandemia ci ha insegnato che la fragilità riguarda tutti, anche i grandissimi: vedi le Olimpiadi o il Festival di Cannes. Adesso che i presuntuosi hanno abbassato la cresta è il momento degli altri. Noi operatori culturali non dobbiamo domandare: come si fa? Il nostro compito è offrire risposte. Per esempio, nel prossimo futuro a Giffoni troveranno lavoro altri 300 giovani con una scuola di alta formazione, gli studios e un campus grazie ai fondi del Recovery Plan. Se è successo a Giffoni, tutto quel che ci siamo raccontati, ed è venuto da zero, cosa manca perché avvenga altrove?

 

Forse la benedetta follia di un ragazzo di paese in certi sabati piovosi di novembre.

 

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