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Sicuri sia meno intenso?

L'amore parlato

Simonetta Sciandivasci

Innamorarsi senza vedersi, incontrarsi, sfiorarsi. L’ennesimo allarme sociale e la libertà di essere senza apparire

Con una certa preoccupazione, qualche giorno fa, alcune di noi hanno ricevuto la foto della foto di un articolo (ormai non si sprecano neppure a mandarti un link, e in fondo è più onesto: ti mandano direttamente la sola cosa che leggerai, il titolo). La foto: sotto un’orrida doppia faccia, metà ragazzo metà ragazza, entrambi al telefono, c’era scritto “Non ti ho mai visto, ma ti amo”. Poiché la cosa, naturalmente, ci riguardava da vicino, nel senso che riguardava una nostra amica, parlava proprio di una storia che sta vivendo o ha già vissuto lei, siamo risalite al pezzo, lo abbiamo letto con grande attenzione, abbiamo appreso che un numero crescente di adolescenti intrattiene relazioni sentimentali, anche piuttosto intense, con persone che non ha mai visto, incontrato, sfiorato. Relazioni che nascono parlando, crescono parlando, muoiono parlando. Tutto un dire e un fare senza mai baciare – ci si bacia ancora, osiamo una geografia ipotetica, a Bologna, nel profondo Veneto, in qualche paese irpino, a Tor Tre Teste, nella steppa mongola, fuori dall’Ue, forse in Texas.

 

L’articolo riportava persino i numeri di un’indagine: su 56.000 ragazzi italiani di età compresa tra i 14 e i 20 anni, il 57 per cento ha risposto di non aver avuto un appuntamento nell’ultimo anno. Gli altri, in più della metà dei casi, hanno incontrato quelli che poi sono diventati i loro partner su internet e basta. La psicoterapeuta consultata, dottoressa Annalisa Battisti, dichiarava che in questa nuova (nuova?!) forma di relazione, che naturalmente ha una dicitura inglese così da arrecare sentore patologico, la Never Met Relationship, non si affrontano né attraversano tutte le fasi della sperimentazione e della conoscenza dell’altro, i litigi, i rifiuti, gli imbarazzi, perché “il virtuale consente di passare in tutta comodità alla sfera intima” e, soprattutto, che “c’è un momento in cui le parole diventano pietre. L’altro non è più coinvolgente, non lo si idealizza più”. E così ci si lascia senza nemmeno essersi mai presi – che splendore, che magnificenza, che relax. 

 

Stiamo sulla faccenda delle pietre, che è la sola che ha colpito noi adulte, ormai intrigate più che inspessite dagli allarmi sulla virtualità, come da tutto il modernariato – siamo signore, mica ragazze di Porta Venezia, con tutto il rispetto. Che le parole diventino pietre è impreciso: le parole nascono pietre, non lo diventano, e questo è il tempo che più di tutti l’ha intuito, tant’è che anziché per ragionare le usa per lapidare. Si tratta, però, di pietre preziose, quindi irregolari e uniche, tagliabili ma non malleabili, quindi non conformabili, e infatti Patrizia Cavalli ha detto ad Annalena Benini: “Non esistono sinonimi”. Ogni parola è un quarzo, vuole dire precisamente quello che vuole dire, non puoi usare rabbia per dire ira, non puoi dire amore per dire affetto, né scomparso per dire morto – meglio, si può fare, ma si deve sapere che si finisce con il mentire: un giorno, quando riusciremo a condurre una seria e composita analisi delle fake news, scopriremo che in buona parte dei casi sono state generate dall’uso di parole improprie per dire fatti veri. 

 

 

L’amore parlato è, per questa e altre ragioni, il più sincero. È quello dove l’idealità conta più di tutto, ed essendo l’idealità non contaminata dalla realtà, luogo di strutture e sovrastrutture, incomprensioni, compromessi, compiacenze e decine di altri disastrosi obblighi della convivenza civile, essendo all’idealità che consegniamo il distillato purissimo dei nostri desideri, è l’amore dove più siamo esposti, veri. Chi crede che all’amore parlato manchi la verità, commette un errore gnoseologico: confonde realtà e verità, l’una mondana e corporea, quindi raggiungibile e verificabile, ma pure mendace, l’altra celeste e inafferrabile. Certo, con le parole si può mentire, ma per quale ragione chi non ci vede, non ci incontra, non ci vive addosso e quindi non ci ricorda ogni sette minuti con il suo alito che il corpo umano è una fabbrica di miasmi, ecco, per quale ragione costui o costei, codesto santo o santa, dovrebbe dire più frottole di chi, invece, ci porta a cena, al cinema, al bar, a casa sua (ahia), a casa dei genitori (mayday, mayday), peraltro senza sforzarsi minimamente di allietarci con una conversazione brillante o almeno piacevole – perché tanto conta stare insieme, amore mio, guarda come stiamo bene in silenzio, l’amore vero è poter tacere: ma chi ha inventato questa frottola? 

 

Voi davvero uscireste a cena per tutta la vita o anche per un mese o pure per una sera soltanto, a maggior ragione se per una sera soltanto, con un semimuto semovente imbambolato dal menù poi dal décolleté (non per forza vostro) poi dal soffitto, che prenda la parola ogni dieci minuti e solo per dirvi: com’è bello tacere, mi fai stare bene perché stai zitta, dimmi che ti faccio bene anche io perché sto zitto. 
Se è così, se vi fa star bene perché sta zitto, smammate. Subito. Pagategli anche il conto, poverino. 

 

Nella scena finale di “Revolutionary Road” di Richard Yates (in Italia per Minimum Fax), uno dei più grandi romanzi americani e quindi mondiali sul matrimonio, il marito di una delle vicine di April e Frank, la coppia che esploderà, quando sua moglie gli parla, stacca l’apparecchio acustico ed è chiaro che è solo grazie a quel trucchetto che sopravvive, e sopporta la stronza pettegola che ha sposato. Che significa? Chi non vuole le vostre parole, non vi ama. Chi vi dice che vuole i fatti, non le parole, non vi desidera che in parte, forse non vi desidera affatto, anche se certamente vuole possedervi, e vuole farlo per consumarvi. 
Gli adolescenti, che hanno sempre ragione tranne quando ascoltano Massimo Pericolo, e sono molto più liberi di noi, e infatti ci mandano in allarme come tutto ciò che è libero, gli adolescenti che sanno e possono amare nel solo modo in cui si dovrebbe amare e cioè senza condizioni e mire, sanno innamorarsi parlando e basta. Sempre. Anche delle stesse cose, che però poi diventano diverse perché sono diverse le parole con cui vengono dette, e noi spiamo, origliamo, e ci sembra una follia, come tutto ciò che, in fondo, invidiamo. Invidiamo una cosa precisa: la capacità che hanno di vedere una persona senza vederla, noi che non vediamo nessuno nemmeno se ci sta a mezzo metro d’insicurezza dalla faccia, smascherinata e nuda, perché la avvolgiamo delle nostre aspettative. 

 

Il mittente di quel messaggio, quello con la foto della foto dell’articolo che raccontava di questi ragazzi qui che si fidanzano senza mai essersi visti, voleva dirci: sono tre settimane che ci scriviamo, è arrivato il momento di vederci, basta, o ci vediamo o faccio un casino, ho bisogno di sapere che pelle hai, che profumo emani, quanto pesi, come tagli il filetto, se ti commuovi davanti a un film, non vorremo far la fine di questi adolescenti? 

 

E noi abbiamo pensato che avesse ragione, che anche noi vogliamo vedere se si commuove davanti a un film, se mette i gomiti sul tavolo quando mangia, se bacia bene, ah per la miseria, se bacia bene. E dopo quel bacio, che succede? Proprio lui vuole darci un bacio? Lui che ci ha detto: hai sentito l’ultimo disco di Motta, bel cialtrone, il primo pezzo è un plagio di “Cause” di Rodriguez, canzone che peraltro ti dedico, perché a un certo punto dice che il miglior bacio che io abbia mai dato è quello che ancora non ti ho dato. E adesso che fa, cede? Ora vuole un bacio che ti porti in classifica, e poi in archivio, e faccia di te una fra tante, una che come tutte prima o poi lo stancherà perché non avrà più mistero, una che lui crederà di conoscere perché non gli parla più, ma lei non gli parla più perché lui non le parla più e allora lei ha preso a parlare con un altro, uno più giovane, un filologo, uno che non le dice mai: vediamoci per capire se tutto questo è vero, perché sa che è vero; invece le dice: vediamoci per parlare ancora, meglio, mentre ti tengo la mano, accendiamo la luce o se preferisci la spegniamo, lo so che sei meno bella che in foto, ma non devi angustiarti, perché la tua bellezza ai miei occhi è eterna come le parole che dici e il modo in cui le dici, io ho ascoltato prima le parole, le pause, i sospiri, e mi sono innamorato di come dici le cose, che poi è il modo in cui hai a che fare con il mondo. 

 

Il mondo è iniziato con una parola, da una parola. Noi che non possiamo dirci cristiani lo sappiamo, perché è scritto nella Bibbia, ma essendo la Bibbia un prequel di Game of Thrones, è un testo mondiale, inclusivo, insomma dice una verità assoluta. Nel Vangelo di Giovanni è scritto: la parola si fece carne e abitò tra noi. Succede tra amanti di Tinder, di WhatsApp, di pandemia: la parola si fa carne, il parlante si fa vivo, presente, nostro, per noi, si dà a noi totalmente nuovo e inedito, di sé ci racconta ciò che desidera, ed è in quella selezione che dobbiamo imparare a intravederlo, a intuirlo, perché non per forza chi vorremmo essere e chi siamo coincidono, e quella mancata coincidenza a volte è colpa di fattori esterni, e allora se ci innamoriamo di un uomo che ci dice d’essere qualcosa che nella realtà non è, oppure è a metà, noi non ci stiamo innamorando di una bugia, ma di un sogno. Direte che questa è una follia giustificazionista e deresponsabilizzante – a casa tutto bene, sul serio parlate così? Può darsi. Può darsi che gli amori parlati siano fucine di schizofrenici, palestre di maniaci, disturbati, sociopatici. 

 

Ma può darsi anche che tra loro ci sia un Cyrano De Bergerac. Anche lui mentiva. Non solo: lui ingannava Rossana scrivendole lettere d’amore che firmava con il nome di qualcun altro, così che lei potesse amare le sue parole, quindi la sua mente, e il corpo di un altro, aitante e poderoso come i suoi versi. La parola d’amore è l’unica parola salva dall’insulto, dalla contrapposizione continua, dalla coazione al posizionamento: parlare di e per amore significa elevarsi, intuire, immaginare, senza bisogno di capire. Certo, non è esente da fraintendimenti, scontrini, colpe, omissioni, errori – ed è quantomeno ingenua la psicoterapeuta che dice che i ragazzi che si amano senza vedersi evitano il conflitto: niente fa bisticciare due amanti più di una frase.  

 

Innamorarsi e amarsi parlando ci lancia nell’eterno conflitto tra Cartesio e Pascal, tra la scissione dell’anima dal corpo e il loro sinolo, e ce lo fa solcare, senza risolverlo, nel solo modo possibile: conversando. 
Due innamorati che parlano non arrivano mai da nessuna parte, perché parlare non porta da nessuna parte, serve ad allargare l’orizzonte, a far rotolare la mela così lontano dall’albero che, mentre la si insegue, si dimentica di volerla mangiare e le si corre dietro soltanto per raggiungerla, e mentre lo si fa si va incontro al mondo. Due innamorati che si amano parlando non si sciupano, curano un giardino inventato, lo innaffiano ogni giorno, sanno che ha bisogno, per non sfiorire, di essere detto, d’essere raccontato, d’essere inventato. Sanno che quel giardino è grave ma non serio, ne ridono, l’unico giardino in cui si possono ancora far battute senza rimetterci la carriera è quello degli amanti, e siccome diceva Hugo che la libertà comincia dall’ironia, è tra amanti parlanti che comincia la libertà. La libertà di essere senza apparire, prima di tutto. La libertà di permanere nell’ambiguità, che è il nostro stato naturale, e hai voglia a brigare per la trasparenza, l’esattezza, le biografie pulite e inattaccabili, e decine di altre sciocche irrealtà. La parola rosso non sarà mai rossa come una mela rossa: in quella distanza, diceva Marguerite Yourcenar, c’è la letteratura. 

 

Parlare d’amore non sarà mai intenso come farlo: siamo sicuri? Cos’abbiamo provato, quando il mittente della foto di articolo ci ha detto: tra una settimana vengo da te, ho prenotato un albergo sensazionale, Roma non sarà mai così bella come con te? Siamo state felici, pazze di felicità, certo preoccupate dal fatto che per una settimana dovremo digiunare per arrivare il più possibile simili a come eravamo prima che la pandemia facesse di noi un corpo non conforme. E poi abbiamo pensato: di cosa parleremo? Proprio con lui, che abbiamo amato per come ci ha parlato, per tre settimane, perché sappiamo che il corpo, quando si mette in mezzo tra due persone, le ostacola, le rimpicciolisce, ne condiziona il linguaggio, impoverisce la conversazione, la fa meno coraggiosa, la rende a sua immagine e somiglianza, perché il corpo è invidioso, gretto e presuntuoso. Abbiamo realizzato che lui non ci canterà Fred Bongusto quando cammineremo per Roma o Napoli o Palermo, e nemmeno proverà a spiegarci quello che sente, perché potrà baciarci, e allora saremo una storia qualunque, bellissima e morente. 

 

Simone Weil, che d’assenza se ne intendeva, scrisse: “Una persona amata che delude. Gli ho scritto. Impossibile che non mi risponda quel che ho detto a me stessa in nome suo. Gli uomini ci debbono quel che noi immaginiamo ci daranno. Rimettere loro questo debito. Accettare che essi siano diversi dalle creature della nostra immaginazione, vuol dire imitare la rinuncia di Dio. Anch’io sono altra da quella che m’immagino d’essere. Saperlo è il perdono”.  Chi si ama con le parole, tutto questo, già lo sa.

  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.