(Lapresse)

Un libro ci spiega perché non capiamo un accidente dell'eccezione svedese

Guido de Franceschi

“Made in Sweden” e la parola “lagom”: la 'medietà' svedese è il prodotto di una composizione di estremi. C'è sempre però qualche eccezione fuori-misura, basta vedere come Stoccolma ha reagito alla pandemia
 

Ma la Svezia è un paese supernoioso (cioè: piacevole per viverci, ma poco stimolante da raccontare) o un paese superbizzarro? Né una né l’altra cosa. O tutte due. E’ questa l’impressione che si ricava da “Made in Sweden. Le parole che hanno fatto la Svezia” di Elisabeth Åsbrink, che esce oggi per Iperborea (360 pagine, 18 euro, traduzione di Alessandro Borini).
Raccontare un paese, peraltro, è (per fortuna) un’impresa poco oggettiva e lo sa anche la Åsbrink: “Le parole stanno come le monete sul fondo di un pozzo, e luccicano quando qualcuno ha bisogno di scrivere un racconto […]. Può trattarsi della storia di un popolo, di una lingua, di un paese, una storia che può essere vera, falsa oppure un po’ abbellita; la storia di una storia”. In ogni caso, questa “storia di una storia” è convincente perché la Åsbrink, che è nata a Göteborg da un ungherese e un’inglese, la può raccontare sia da dentro sia da fuori. E soprattutto perché – come sa chi ha letto il suo “1947” – è una scrittrice capace di cambiare la nostra percezione del mondo facendocelo vedere a frammenti.

 

La sua Svezia è anche “Lagomlandia” (dalla parola “lagom”, che “significa ‘né troppo né troppo poco, la giusta via di mezzo’ e che rappresenta, nel bene e nel male, l’emblema stesso della svedesità”). E quindi è il paese che immaginiamo spesso, in cui tutto funziona ma è un po’ standard, in cui tutti sono fiduciosi ma anche freddi, in cui “l’estate è breve / perlopiù piove” (come canta Tomas Ledin), in cui tutto è carino ma è anche un po’ Ikea, in cui c’è Greta che ci invita alla rivoluzione, ma con i pennarelli colorati. Insomma, un paese in cui si sbadiglia. Ma, fin qui, non servirebbe una brava scrittrice per raccontarcelo: il “modello svedese” ci era già chiaro fino al pregiudizio. Ma nel racconto della Svezia della Åsbrink c’è anche molto altro. E, no, non è il solito “marcio” che non c’è solo in Danimarca ma anche in Svezia e su cui si basa il successo del nordic noir (che spesso, ormai, anche quello: yawn!).

 

In “Made in Svezia” c’è invece la chiave per provare a capire il rapporto che c’è tra il “modello svedese” e l’“eccezione svedese”: perché c’è anche quella, anche se la percepiamo in modo confuso. Pensiamo ad esempio alla strategia niente-lockdown-niente-mascherine che Stoccolma ha adottato in solitaria per fronteggiare il Covid: il New Yorker ha appena dedicato allo “Sweden’s Pandemic Experiment” un longform che si riassume in un quesito irrisolto: anticonformismo geniale o pervicace errore?Mentre si accumulano i capitoletti di “Made in Sweden” si inizia  però a intuire quale potrebbe essere la ragione per cui la Svezia nei giorni pari sembri così “lagom” e nei giorni dispari sembri invece un posto che esprime un punto di vista tutto suo, e spesso estremo, sulla vita e sul mondo. Mettendo insieme storie e frammenti, leggendo “Made in Sweden” si fa strada l’idea che la lagom-itudine nasca molto spesso non da un innato senso della misura ma, al contrario, da una somma tra molti “troppo” e molti “troppo poco”. Quasi sempre questi elementi estremi si bilanciano perfettamente – e allora ecco il “modello svedese”. Ma ecco che, qui e là, continua a trasparire la dismisura dei singoli addendi che formano quell’equilibrio – ed ecco l’“eccezionalità svedese”. 

 

 

E, quindi, l’abbraccio un po’ soffocante che la collettività dà agli individui attraverso un welfare estremo ha bisogno, per esistere, di una società in cui l’unità di misura non è la famiglia ma il singolo e cioè di un individualismo estremo che fa sentire liberi ma anche un po’ soli. E, quindi, il ruolo internazionale di Olof Palme conciliava una vicinanza (estrema per un premier occidentale) con il Vietnam del Nord comunista e una critica estrema per un “amico” di Hanoi verso la dirigenza comunista ceca (“le bestie della dittatura”). E, quindi, in funzione antinazista, negli anni Trenta il popolo svedese avrebbe dovuto sapere “che non c’era nulla che i nazisti in Germania potessero realizzare con la dittatura che i socialdemocratici non potevano realizzare in Svezia con la democrazia” (così lo storico Alf W. Johansson).

 

E quindi ecco “il sogno di conciliare sogni apparentemente inconciliabili”: che i bambini possano crescere ultraliberi in un sistema di scuole d’infanzia ultracontrollato dal punto di vista pedagogico. E così via, per 360 pagine. In più (non compresa nel libro) la scelta “estrema” di affrontare a viso scoperto la pandemia non per negazionismo o populismo, ma proprio rivendicando un ricorso “estremo” alle certezze scientifiche (che sul Covid sono però sempre troppo poche).

 

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