Rembrandt Bugatti allo zoo di Anversa, nel 1908 circa (Wikipedia)

L'epopea di una famiglia

Elefanti, asini e altri animali. Il bestiario che svelò il Genio Bugatti

Francesca d'Aloja

Suo padre era un famoso designer, fratello e nipote crearono le auto più belle e veloci. Ma il destino di Rembrandt Bugatti era tra le gabbie del giardino zoologico. Fu la quintessenza del genio italico

Sono sempre più convinta, di aver sbagliato epoca. Complice questo assurdo anno che segnerà per sempre le nostre vite e intanto ci costringe all’isolamento (preferisco utilizzare il termine “clausura”, per l’implicita consolazione di una scelta volontaria che induce alla ricerca, all’introspezione), trascorro i miei giorni in compagnia di persone scomparse da tempo, fantasmi che mi hanno tenuto compagnia più di quanto avessi mai potuto immaginare. E più di una volta, mentre mi addentravo nella ricerca dei loro trascorsi, entrando virtualmente nelle loro case, nei loro studi, passeggiando lungo strade che ancora esistono seppur trasformate dal tempo, ho provato il rimpianto di non essere nata in quegli anni, così consoni alla mia natura, così diversi.

 

Avessi avuto l’età giusta nel 1910 sarei andata a passeggiare (cosa che peraltro faccio tutte le volte che mi trovo a Parigi) al Jardin des Plantes, e mi sarei acquattata in un cantuccio, all’ingresso della Ménagerie, in attesa di vedere un ragazzo che in quel luogo si recava quotidianamente. Avrei riconosciuto da lontano la sua inconfondibile silhouette, statura fuori dal comune, lunghe gambe sottili, abbigliamento ricercato, cappello a falde flosce e valigetta di legno nella mano sinistra. Nel rispetto della sua nota riservatezza, lo avrei pedinato all’interno del giardino zoologico senza farmi notare. Mi sarebbe bastato guardarlo, in piedi di fronte alla gabbia dei leoni o alla grande voliera, concentrato nel suo lavoro. L’avrei osservato osservare. Perché è questo ciò che faceva Rembrandt Bugatti, milanese trapiantato a Parigi: fissava attentamente gli animali. Ne scrutava i movimenti, studiava il loro comportamento per ore fino a quando non si accendeva una scintilla. Solo allora sollevava il coperchio della valigetta, ne estraeva gli attrezzi del mestiere, fil di ferro e plastilina, e cominciava freneticamente a plasmare la materia con le grandi mani, fino a darle la forma di una scimmia, di una giraffa, di uno zebù.

 

Dello scultore Rembrandt Bugatti avrei voluto sapere tante cose, tutto ciò che nessuno ha mai saputo. Nella sua breve esistenza in pochi hanno davvero capito chi fosse. Le uniche creature a cui rivelò tutto se stesso furono gli animali, i soli con cui si sentiva a suo agio, e in pace. Con i suoi simili Rembrandt aveva poca confidenza, e tranne l’adorato fratello Ettore, e la cognata, non sentiva il bisogno di frequentare nessuno. Lavorava senza sosta: in soli dieci anni produsse più di trecento sculture, e al contrario di molti suoi colleghi artisti, il suo talento, il suo immenso talento, gli fu riconosciuto in vita. Quindi per molti anni, venne dimenticato. Forse perché, nel frattempo, il suo cognome era diventato famoso in tutto il mondo. E non grazie alle sue sculture.

 

Quando si pensa o si pronuncia il nome Bugatti, viene spontaneo utilizzare l’articolo plurale femminile. Le Bugatti, le mitiche, inarrivabili, automobili. Ma l’articolo corretto sarebbe invece I Bugatti. Già, perché i componenti di quella famiglia sono proprio come le celebri automobili: mitici e inarrivabili. A cominciare da Carlo, il capostipite. L’eclettico scultore, architetto, pittore, incisore, inventore di strumenti musicali, ma soprattutto ebanista creatore di mobili stravaganti, oggi esposti nei più importanti musei del mondo. Un anticonformista che fece dell’estetica una ragione di vita, quando ancora era possibile dedicare la vita intera alla bellezza. Fu mia madre, arredatrice col pallino del Liberty e progettista anch’essa di mobili dai tratti zoomorfi, a farmi conoscere Carlo Bugatti, mostrandomi delle fotografie delle sue creazioni. All’epoca non ne capii la grandezza, mi sembravano assurde, inutilizzabili. A fuorviarmi erano le definizioni nelle didascalie: tavolo, sedia, armadio. Nomi di oggetti comuni applicati a manufatti che di comune non avevano nulla, non soltanto nelle forme (asimmetriche, sproporzionate) ma nei materiali utilizzati: legni esotici e pergamena, intarsi di madreperla, gusci di noce, osso, avorio ed ebano, e poi nappe, corde, ferro e rame, ottone e peltro. Delle vere e proprie sculture dall’ingannevole denominazione di mobilio. Immagino le facce dei visitatori all’Esposizione internazionale Arti decorative di Torino del 1902, davanti a una delle sue creazioni più fantasiose: il Salon Escargot, un intero salotto composto da mobili che si ispiravano alla struttura spiraliforme della chiocciola. Una scenografia fantasmagorica nella quale spiccava la celebre Cobra chair, priva di gambe, base, seduta e schienale fuse in un unico blocco ricoperto di pergamena decorata che ne occultava le giunture, per suggerire l’impressione di continuità. In quell’occasione si racconta che la Regina Elena, nel complimentarsi con l’artista per la bellezza dei “suoi mobili in stile moresco”, fu poco rispettosamente contraddetta dallo stesso Bugatti: “Si sbaglia, Maestà, questo è il mio stile”.

 

  

Giumenta con puledro al trotto , bronzo, Museo Bugatti di Molsheim (Wikipedia)

 

Non mentiva Carlo Bugatti nel considerarsi unico, le sue creazioni, pur inserite nell’estetica Art Nouveau, ne superavano i precetti, andavano oltre: “Fu il primo, in Italia, a creare, e non solo a sognare, un moderno stile nell’arredamento”, si disse di lui. La sua fama ben presto si accresce, espone a Londra, a Parigi, dove decide di trasferirsi insieme alla famiglia. Chiude la Fabbrica Monili Artistici Fantasia (che nome meraviglioso) e apre un nuovo laboratorio a Parigi allargando la sua produzione a gioielli e oggetti d’arte. E’ in questo contesto fiabesco che crescono i figli Ettore, Rembrandt (il cui nome si deve allo zio pittore Giovanni Segantini, compagno di studi di Carlo all’Accademia di Brera e marito della sorella Bice) e Deanice. Trascorrono il tempo nell’atelier del padre e si dilettano sin da bambini a dipingere e scolpire. Gli amici che frequentano la casa milanese provengono dal milieu artistico e industriale, e saranno due di loro a incoraggiare le inclinazioni dei giovani Ettore e Rembrandt. Giulio Prinetti, produttore di veicoli da corsa, scopre l’abilità del quattordicenne Ettore dopo averlo visto modificare con le sue mani un triciclo a motore. Tre anni dopo lo invita a lavorare nella sua officina e nel giro di poche settimane l’apprendista concepisce un triciclo da corsa bimotore. A 18 anni partecipa come pilota a una corsa e arriva secondo. A 19 realizza la sua prima auto, la Bugatti Type 2, talmente bella che viene esposta al Salone internazionale di Milano dove viene notata dal ricchissimo barone De Dietrich, costruttore di automobili, che si entusiasma al punto di proporre a Ettore l’incarico di disegnatore progettista nella sua fabbrica in Alsazia.

 

Nel frattempo Rembrandt viene incoraggiato dallo scultore Trubetzkoy, allievo di Rodin, a dedicarsi alla scultura: lo ha visto modellare argilla e plastilina nello studio del padre e ne è rimasto impressionato. Nel 1901, dopo aver trascorso qualche giorno in Svizzera insieme allo zio Segantini, Rembrandt realizza la sua prima opera in bronzo. Il soggetto, una mucca, inaugurerà una lunga serie di animali. Basterà questa prima prova a convincere il famoso scultore Hébrard, proprietario della più importante fonderia di Francia: vuole avere l’esclusiva sull’artista diciassettenne. Il talento dei due fratelli è infatti così precoce che Carlo è costretto a firmare i contratti per loro che sono minorenni.

 

  

 

L’estetica non è mai fine a se stessa, sembra essere il motto di famiglia. L’amore per la bellezza si traduce in lavoro incessante, i Bugatti cominciano presto e non si fermano mai. Deanice, l’unica femmina, erediterà dal padre il gusto per l’abbigliamento e anche lei, come gli altri, sente il bisogno di dar sfogo alla manualità: disegna modelli di foggia originale che realizzerà personalmente. Il guardaroba della famiglia Bugatti sarà, in parte, opera sua.

 

Ecco. Di Rembrandt sono innamorata da tantissimi anni (ho mentito dicendo che mi sarei accontentata di osservarlo allo zoo… avrei fatto di tutto per conoscerlo). Non ricordo nemmeno più come è scoccato il colpo di fulmine, so solo che da un paio di decenni penso a un film (o meglio una serie) su di lui e la sua straordinaria famiglia. Avrei voluto scrivere un libro, ma i Bugatti sono materici: disegnano, plasmano, progettano oggetti meravigliosi che non possono essere descritti, ma devono essere visti, toccati. Quando andrete a cercare (sono sicura che lo farete) le foto che li riguardano, capirete cosa intendo, e capirete anche il perché del mio amore per Rembrandt. Le sue opere, come la sua vita, i suoi occhi, le sue mani, sono struggenti. Una vita breve e perlopiù infelice. “Il giardino zoologico è la mia consolazione”, scrive al fratello Ettore. Malgrado gli onori, le critiche lusinghiere sui giornali più importanti e il conferimento, a soli 27 anni, della Légion d’Honneur per “meriti artistici”, Rembrandt non riesce a legare con nessuno. Eppure è una persona gentile, charmante, come si dice. Lo chiamano “l’aristocratico” per via del suo aspetto altero, i tratti affilati del viso, l’incedere elegante di chi appare raffinato anche con un grembiule sporco addosso. Lui, che dice di sé “somiglio a un marabù”, come se il mondo animale fosse l’unico a cui riferirsi, sembra aver paura di ciò che lo circonda, cammina sempre a testa bassa per non incrociare lo sguardo altrui, e quando gli capita di vedere un conoscente farsi avanti lungo il marciapiede, attraversa la strada per evitare i convenevoli. Quando si sente troppo solo va a trovare Ettore che nel frattempo si è messo in proprio diventando produttore delle sue automobili. Vive a Molsheim, vicino Strasburgo, dove ha rilevato una vecchia fabbrica dismessa e ne ha fatto il suo quartier generale. Ha messo al mondo tre bambini, e abita insieme alla moglie Barbara in una villa spettacolare circondata da un parco. E’ lì che Rembrandt si diverte a gironzolare sullo chassis di un’auto senza carrozzeria, seduto quasi a terra, una mano attaccata al volante e l’altra che agita un frustino, inseguito dai levrieri di Barbara (non è forse una scena bellissima per un film?). Gli bastano pochi giorni di distrazione, poi deve tornare alla sua “consolazione”, il Jardin des Plantes.

 

Vi trascorre intere giornate a studiare gli animali: non disegna, nessuno schizzo preparatorio, i suoi occhi sono come un obiettivo fotografico che registra ogni movimento, ogni minimo dettaglio viene plasmato all’istante nella duttile plastilina. Una morbidezza poi magicamente trasposta nel metallo. I bronzi di Rembrant sono aerei, riproducono il movimento: l’ippopotamo sbadiglia, la giraffa si contorce, le scimmie si grattano, le belve si annusano. “Anche da fermo l’animale è sempre in movimento”, dice. La fissità delle statue equestri o dei soggetti abituali degli scultori animalier suoi contemporanei si trasfigura, il bestiario di Rembrandt si riempie di vita, di verità.

 

Non si sa nulla dei suoi amori. Si dice fosse invaghito della cognata alla quale scrive lettere bellissime, la sola convivenza nota è con due giovani antilopi che occupano il suo studio per tre mesi: “Non assumono atteggiamenti, non fanno nulla per piacerti…”. Provengono dallo zoo di Anversa, meta imprescindibile per Rembrandt. Per lo scultore una città vale l’altra, la sola cosa che gli interessa è la presenza di un giardino zoologico, e quello di Anversa è il più grande d’Europa. Si trasferisce in Belgio e lavora tutto il giorno facendo la spola fra la sua oasi di pace e il suo studio. Ma dura poco. Siamo nel 1915, e Anversa, come molte altre città, viene bombardata. Non saranno solo i civili a farne le spese. Si teme che le bombe possano colpire lo zoo e di conseguenza far fuggire nelle strade gli animali superstiti. Il governatore della città decide di farli abbattere, tutti quanti. Bugatti viene informato con una lettera dal direttore dello zoo, è un colpo durissimo. Per giorni resta barricato nel suo studio, poi si arma di coraggio e decide di andare allo zoo. Le gabbie sono vuote ma non trova il silenzio che si aspettava: alcune zone, come la sala da tè e l’atrio gigantesco, sono state adattate a ospedale da campo. Un andirivieni di gente lo travolge, si aggira fra i feriti adagiati sulle barelle, quando un medico si avvicina e gli chiede se è disposto a dare una mano. E’ alto, giovane e incredibilmente forte Rembrandt. La forza misteriosa dei magri… Si offre come aiuto barelliere e sprofonda negli orrori della guerra. Le gabbie, ora, ospitano i cadaveri delle vittime.

 

 

 

Non ha più un soldo (mai stato ricco Rembrandt Bugatti, le sue apprezzate sculture, proprietà di Hébrard, gli garantivano un misero stipendio e più di una volta ha dovuto chiedere aiuto al fratello) e lo studio requisito. Ettore lo convince a raggiungerlo a Molsheim, da lì partiranno insieme per Milano, non prima di aver seppellito in giardino alcuni motori appena progettati. Torna nella sua città natale dopo dieci anni, ma si sente sperduto. Prova a lavorare ma non è soddisfatto e distrugge tutto ciò che con fatica è riuscito a realizzare. Vuole tornare a Parigi, pur sapendo che la città è in condizioni disastrose, il fratello non riesce a trattenerlo. Trova un piccolo alloggio nel Sixième, ma è solo e non c’è nulla che possa fare. Ha soltanto trentun anni eppure si sente già vecchio. Il suo lavoro scompare insieme alle mille cose che la guerra sta uccidendo, a chi possono interessare i suoi animali? Lui però ha in mente una nuova opera, diversa dalle altre, e farà di tutto per realizzarla.

 

La mattina dell’8 gennaio 1916, dopo aver trascorso giorni e notti a lavorare, Rembrandt Bugatti esce di casa. Si aggira nel quartiere, compra un mazzolino di violette all’angolo della strada, rientra, infila i fiori in un bicchiere d’acqua, si cambia d’abito scegliendo il più elegante del suo guardaroba, si fa la barba, va in cucina, si siede al tavolo e scrive tre lettere. Una è indirizzata al fratello Ettore: “Sii carogna con gli uomini, gentile con le donne, Dio con i figli e buono con gli animali”. Poi, meticolosamente, tappa ogni spiraglio di porte e finestre con dei lembi di stoffa, e infine apre i rubinetti del gas.

 

Troveranno il suo corpo disteso sul letto, le mani incrociate sul petto. Accanto, la sua ultima opera: un Cristo in croce.

 

La guerra cancella il nome di Rembrandt Bugatti e buona parte delle sue opere, che verranno fuse per fini meno nobili. Sessant’anni dopo, un uomo molto famoso e molto bello scoprirà per caso le sculture di Bugatti e se ne innamorerà a tal punto da diventarne in pochi anni il più grande collezionista.

 

“Se l’avessi conosciuto sarei diventato il suo schiavo”, dichiara Alain Delon, mentre con la mano accarezza il dorso lucido di una pantera scolpita un secolo prima da quello che lui (e adesso molti altri) considerano uno dei più grandi scultori del novecento. Il felino fa parte di un lotto di dodici pezzi di sua proprietà, messi all’incanto da Sotheby’s in occasione del centenario della morte dell’artista. L’ottantenne Delon ha deciso di separarsene (ne conserverà solo cinque), perché, dice, “detesto la macabra procedura delle vendite postume”, e forse anche perché nel frattempo le quotazioni di Rembrandt Bugatti sono arrivate alle stelle (e di questo Delon rivendica il giusto merito). La pantera sarà battuta a un milione e duecentomila euro, e in aste successive altre sculture raggiungeranno i due milioni. La giustizia folle e tardiva dell’arte.

 

Altra sorte ha segnato una delle creazioni più belle di Rembrandt Bugatti: misura pochi centimetri, e in quella minutezza è contenuto il sigillo di una bellezza inarrivabile.

 

  

La Bugatti Tipo 41 Royale, modello Coupé Napoleon: sul tappo del radiatore, l'elefantino danzante di Rembrandt (Wikipedia)

 

Dieci anni dopo il suicidio di Rembrandt, il marchio automobilistico Bugatti ha raggiunto il suo vertice. I modelli concepiti da Ettore uniscono design raffinato a prestazioni tecniche impareggiabili che li portano a conquistare il podio di tutte le gare automobilistiche dell’epoca (primato tutt’oggi insuperato). La produzione si espande nella progettazione di aerei, treni ad alta velocità, barche. Ma anche strumenti chirurgici innovativi, rasoi elettrici, sedie da dentista, biciclette da corsa… Il genio di Ettore Bugatti, riconosciuto in tutto il mondo, non solo non si esaurisce, ma si tramanda: il figlio Jean eredita la stessa visionarietà e lo stesso talento del padre (a detta di molti lo supera addirittura). Precoce come i suoi predecessori, Jean si distingue soprattutto nell’estetica: le carrozzerie da lui disegnate sono forse le più belle di tutta la produzione. Con l’aiuto di Jean, Ettore può permettersi di puntare davvero in alto, arrivando a realizzare un’automobile che verrà ricordata come il più pazzesco investimento della storia dell’automobilismo: la Bugatti Royale, il veicolo più lussuoso di tutti i tempi. Destinata a principi e regnanti (da qui il suo nome), la Royale poteva considerarsi, a tutti gli effetti il non plus ultra della follia visionaria. Dotata del più grande motore mai costruito (un metro e mezzo di lunghezza e uno di altezza), da un paraurti all’altro misurava quasi sei metri e raggiungeva un peso di oltre due tonnellate e mezzo. Ne furono prodotti soltanto sei esemplari, ciascuno con carrozzeria e interni personalizzati ideati da Jean (dal velluto color pavone ai tessuti più pregiati in circolazione). Costava dieci volte una Rolls Royce, allora l’auto più lussuosa sul mercato. Naturalmente si rivelò un flop. Dei sei modelli ne furono venduti soltanto tre, gli altri rimasero proprietà della famiglia. Ma nella mente di Ettore la Bugatti Royale fu l’espressione culminante del suo ingegno, un sogno che si era potuto permettere di realizzare, lontano da ogni considerazione terrena. La più bella automobile del mondo era opera sua, solo questo contava. La sua unicità fu contrassegnata da un ulteriore dettaglio: sul tappo del radiatore si ergeva un elefantino, un bellissimo elefantino rampante opera di Rembrandt. Omaggio di Ettore all’amato fratello scomparso, al quale aveva dedicato l’impresa più grandiosa.

 

Non potendo permettermi il lusso di una pantera, una gazzella o un elefantino firmati Bugatti, possiedo però un piccolo oggetto a cui sono molto affezionata e che adesso mi osserva mentre scrivo di lui: una testolina in bronzo, con le fattezze di Rembrandt, opera di uno scultore molto bravo, Nicola Lazzari, che di Bugatti è un estimatore.

 

L’epopea dei Bugatti rappresenta la quintessenza del genio italico: raffinatezza, stravaganza e immenso talento, caratteristiche rare che diventano straordinarie se appannaggio di una sola famiglia. Eppure sono in pochi, in Italia, a ricordarli. Se ne parla più in Francia, forse perché quel paese fu teatro delle loro imprese, anche se Ettore, il più famoso della stirpe, è sempre stato fiero delle sue origini. Quando i tedeschi, dopo aver invaso l’Alsazia, gli chiedono di collaborare alla progettazione di torpedinieri e auto destinate all’esercito, Ettore rifiuta. Lo stato francese gli nega ogni aiuto e, anzi, lo accusa di collaborazionismo per il solo fatto di essere italiano. E’ il tracollo finanziario. Alla fine della guerra Ettore fa causa alla Francia ma perde. Torna a Molsheim, la fabbrica è in rovina, la villa abbandonata. Solo allora si decide a chiedere la cittadinanza francese e finalmente torna in possesso dei suoi beni. Ma la fine del sogno era cominciata ben prima dello scoppio della guerra. L’11 agosto del 1939, Jean, che il padre ha scongiurato di rinunciare alle competizioni automobilistiche (“è troppo pericoloso, non devi rischiare”), chiede di poter collaudare personalmente un modello appena progettato: la Type 57. E’ un bravo pilota Jean, ma non può prevedere quello che accade poco dopo: un ciclista, curioso di vedere da vicino la nuova auto, sbuca improvvisamente sulla strada. Nel tentativo di evitarlo, Jean sterza e si schianta contro un albero. Muore a soli trentun anni, come lo zio Rembrandt.

 

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