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il foglio del weekend

Un uomo di lava e di miele

Francesca d'Aloja

Storia, sentimenti ed epopea di Haroun Tazieff, il vulcanologo francese che sfidò il fuoco degli dèi

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"In Sneffels Yoculis craterem kem delibat umbra Scartaris Julii intra calendas descende, audas viator, et terrestre centrum attinges”. Agli innumerevoli lettori di Jules Verne, il criptico messaggio risulterà chiaro. A chi invece si fosse perso l’occasione di esplorare dimensioni parallele insieme al formidabile scrittore, suggerisco di colmare la lacuna (soprattutto in questi tempi immobili), magari cominciando proprio dal messaggio cifrato contenuto nel romanzo Viaggio al centro della Terra: “Nel cratere Yökull dello Snæffels che l’ombra dello Scartaris tocca alle calende di luglio, scendi, coraggioso viaggiatore, e raggiungerai il centro della terra”. È ciò che farà il professor Lidenbrock, protagonista del fantasmagorico romanzo, ed è ciò che realmente fece l’uomo di cui voglio parlarvi.

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"In Sneffels Yoculis craterem kem delibat umbra Scartaris Julii intra calendas descende, audas viator, et terrestre centrum attinges”. Agli innumerevoli lettori di Jules Verne, il criptico messaggio risulterà chiaro. A chi invece si fosse perso l’occasione di esplorare dimensioni parallele insieme al formidabile scrittore, suggerisco di colmare la lacuna (soprattutto in questi tempi immobili), magari cominciando proprio dal messaggio cifrato contenuto nel romanzo Viaggio al centro della Terra: “Nel cratere Yökull dello Snæffels che l’ombra dello Scartaris tocca alle calende di luglio, scendi, coraggioso viaggiatore, e raggiungerai il centro della terra”. È ciò che farà il professor Lidenbrock, protagonista del fantasmagorico romanzo, ed è ciò che realmente fece l’uomo di cui voglio parlarvi.

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Di lui e delle sue imprese mi innamorai da ragazza, spinta dallo struggente desiderio di surrogare l’immagine maschile forte, protettiva e paterna che il destino mi aveva tolto. Un rimpianto che traspare, prepotente, in tutti i miti della mia giovinezza. Il suo nome, esotico e bellissimo, è Haroun Tazieff, e in Francia, per oltre un ventennio è apparso in cima alla classifica delle personalità più rinomate, pur esercitando un mestiere tutt’altro che popolare. Era un vulcanologo, uno dei più grandi del ventesimo secolo, ma sarebbe riduttivo considerarlo solo uno scienziato. La personalità di Haroun Tazieff ricalcava l’oggetto dei suoi studi: energia esplosiva. Ha scalato montagne, disputato incontri di boxe e tornei di rugby, partecipato attivamente alla Resistenza, viaggiato nei luoghi più sperduti della terra, esplorato i crateri di centinaia di vulcani, girato decine di film sulle eruzioni, scritto volumi imprescindibili, combattuto feroci attacchi.

 

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Non si è mai fermato, fino alla fine della sua vita, avvenuta nel 1998. Aveva 83 anni, vissuti intensamente sin dall’infanzia. Tazieff era figlio di un principe tartaro, ufficiale medico ucciso sul fronte della Prima guerra mondiale in Russia. Rimasto solo con la madre, la comunista Zenitta, insegnante di Chimica e scienze naturali nonché pittrice, Haroun cresce in Georgia fino a quando la Rivoluzione non costringe madre e figlio a fuggire. Si rifugiano in Belgio, dove Zenitta ottiene una cattedra dall’Università di Liegi e incontra l’uomo che farà da padre a suo figlio, il poeta Robert Vivier. Fino al 1936 Haroun non possiede nessuna nazionalità, è apolide. Quando finalmente gli viene riconosciuta la cittadinanza belga, si iscrive all’università, consegue il diploma di ingegnere agronomo e nel frattempo gioca a rugby e pratica la boxe da professionista, tanto che viene selezionato alle Olimpiadi di Berlino a cui rifiuta di partecipare per “non trovarmi costretto a stendere il braccio di fronte a Hitler”. L’opposizione al regime lo vedrà membro attivo della Resistenza per la quale verrà reclutato come sabotatore dei collegamenti ferroviari (farà saltare in aria la stazione di Liegi).

 

 

Siamo in un’epoca in cui tutto può succedere e tutto succede, e per un giovane esuberante come Haroun il Belgio rivela presto i suoi limiti. Finita la guerra, dopo la laurea in Geologia accetta l’incarico di ingegnere minerario a Katanga, nel Congo belga. E in Africa scopre il suo destino. Nell’ufficio in cui lavora arriva un telegramma: “Vulcano Kituro entrato in eruzione. Stop. Recarsi sul posto e fare rapporto. Stop”. E’ il primo marzo del 1948, una data che segnerà l’inizio di un’eruzione spettacolare e il battesimo del fuoco di Haroun Tazieff. Insieme a due colleghi si precipita sul posto. Il primo contatto con il fenomeno eruttivo avviene di notte. È un’epifania, magnificamente descritta nel libro Crateri infuocati: “Superato l’ultimo tornante, un’immensa ghirlanda di fuoco squarciava la notte, tre volte più alta che larga, scarlatta, con lampi di giallo intenso… giganteschi serpenti di porpora avanzavano verso di noi… Mi sembrava di assistere alla rivelazione di un segreto”. Sarà, prima di tutto, una folgorazione estetica: “Lo spettacolo di un’eruzione è talmente straordinario, talmente formidabile, nel senso etimologico del termine, che ammalia chiunque abbia la sorte di contemplarlo”.

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Tornato alla base, Tazieff non fa che pensare a quello che ha visto. Dopo soli due giorni è di nuovo sul vulcano, stavolta ha con sé una Rolleiflex e una piccola cinepresa 16 mm. Mentre si avventura per la seconda volta sul pendio incandescente nota una cavità in cui sobbolle lava liquida: “Era la sostanza stessa della Terra che si manifestava alla superficie di un pozzo senza fine”. Scopre così, per puro caso, il lago di magma permanente del Nyiragongo. Tazieff accende la cinepresa e comincia a filmare, quando fuoriescono improvvisi due torrenti di lava che avanzano impetuosi, uno a destra, l’altro a sinistra. Malgrado il pericolo Haroun non si lascia intimorire e continua a riprendere: “Non potevo andarmene”, dirà più tardi. Il sogno infantile di esplorare i ghiacci seguendo le orme di Amundsen si infrange quel giorno, la vocazione di Tazieff si rivela nel suo opposto: il fuoco. Comincia a studiare vulcanologia ma capisce che il solo modo di imparare è recarsi sul campo. Durante la permanenza in Congo tenta di raggiungere l’immenso cratere del Nyiragongo ma deve rinunciare a causa dei vapori irrespirabili.

 

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Non è ancora pronto per un’impresa del genere e decide allora di affidare il suo apprendistato ai vulcani europei. L’Etna e lo Stromboli diventano la sua seconda casa. L’approccio fisico rappresenterà l’essenza della sua professione ed è ciò che lo contraddistingue dagli studiosi accademici che per tutta la vita gli saranno ostili, soprattutto in Francia, sua patria d’elezione. Tazieff vuole condividere le sue esperienze, e il modo migliore per farlo è filmare lo spettacolo pirotecnico dei vulcani: “Quando ho assistito per la prima volta a un’eruzione ho subito desiderato condividere ciò che avevo visto, il privilegio che mi era stato concesso non poteva essere solo mio”. Le riprese, effettuate personalmente, sono straordinarie. Tazieff supera i confini del possibile e si cala al centro della terra infuocata. La prima discesa, ancorato a un verricello, avviene nel cratere del Nyiaragongo, dove tutto è cominciato. Il 1956 è l’anno della sua più importante impresa artistico/scientifica: realizzare un film all’inseguimento delle eruzioni dei vulcani del mondo. Si comincia con il Fujiyama in Giappone, poi l’America del Nord, le Ande, l’Africa, l’Indonesia, l’Islanda… Con lo spirito da autodidatta che lo contraddistingue, Tazieff coinvolge nell’impresa Pierre Bichet, un suo amico pittore con nessuna esperienza di vulcani né di riprese cinematografiche, e a lui affida la seconda macchina da presa: “Chi meglio di un pittore può avere il senso di un’inquadratura?”.

 

La testimonianza resa da Bichet di quel fenomenale viaggio durato un anno, scatena, almeno in me, una forte invidia: “Ci siamo dati appuntamento a Singapore e da lì abbiamo raggiunto il Giappone. Non avevo mai visto un vulcano in eruzione, ero preoccupato, ma la presenza di Tazieff mi rassicurava: il suo entusiasmo, la sua preparazione e soprattutto le sue qualità umane mi riempivano di coraggio. Lui faceva le riprese più spericolate e io riprendevo lui che riprendeva i vulcani… era necessario l’elemento umano, in scala, per restituirne la grandezza. Non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi reso partecipe di un’avventura così straordinaria”. Il risultato è un film memorabile: Les rendez-vous du diable. Fu un successo clamoroso sulla scia de Le monde du silence, famosa opera di Jacques Yves Cousteau, le Capitaine, che aveva inaugurato il filone dei film naturalistici. I cineasti della Nouvelle Vague si entusiasmarono: “Non aver visto Les rendez-vous du diable è come non aver letto Une saison en enfer!”, sentenziò Godard. Il film scatena un’ondata di vocazioni scientifiche, la geologia diviene popolare e Tazieff un beniamino del pubblico. La comunità scientifica lo considera un autodidatta senza alcun titolo e lo ostracizza, ma “il cineasta che gioca a fare il vulcanologo” si prende la sua rivincita in un caso che occuperà a lungo le prime pagine dei giornali.

 

Nel 1976 i vulcanologi francesi invocano l’immediata evacuazione di 70.000 sudditi francesi a La Soufrière, in Guadalupe, dove il vulcano, al quale la cittadina deve il suo nome, sta per esplodere. Si prevede un’eruzione magmatica imponente. Tazieff si oppone: secondo lui non è necessario evacuare la popolazione poiché non ci sarà alcuna eruzione. A torto, non verrà ascoltato, e le autorità procedono nel loro intento. Ma il vulcano resta quieto, Tazieff ci aveva visto giusto. È il preludio di una guerra che per decenni ha diviso la vulcanologia francese. Fece scandalo l’incontro, avvenuto nell’ufficio dell’allora Ministre de l’Outremer, fra l’accademico Allègre (responsabile dell’evacuazione) e l’impulsivo ex pugile Tazieff che sferrò un cazzotto al malcapitato professorone. Si tentò una riconciliazione pubblica negli studi televisivi di un noto programma (lo scontro fra i due scienziati fa il record di ascolti, dettaglio interessante per capire i tempi…). La lotta è impari, basta vederli: il giovane, pallido nerd francese, con occhiali alla Filini e improbabile completino anni Settanta contro il vecchio leone russo abbronzato ed elegantissimo. C’è da dire che Tazieff ha dalla sua un fisico invidiabile e una faccia bellissima, occhi verdi, naso rotto, mani grandi. Possiede charme e capacità oratorie davvero notevoli, sostenute da una voce calda e quell’accento particolare sul quale prevale una erre rotonda, sfacciata… (ho ascoltato, incantata, ore di interviste radiofoniche o estratti delle sue conferenze). Le immagini che lo riprendono, con la tuta di amianto, seduto sul ciglio di un cratere, o in maniche di camicia fra i vapori sulfurei, fanno di lui un personaggio mitologico (per non parlare del filmato di una partita di rugby disputata sulle falde dell’Etna, con i giocatori che sembrano astronauti…).

 

Ma d’altra parte, esiste qualcosa di più mitico di un vulcano? La culla degli spiriti, il nascondiglio dei Ciclopi, la porta degli Inferi… Temuti e venerati dalle civiltà, rappresentano distruzione e fertilità, la perfetta sintesi dell’opposizione tra Bene e Male. Da milioni di anni stanno lì per ricordarci l’instabilità della Terra e quanto precaria sia la vita. Il mancato riconoscimento da parte della comunità scientifica sarà per Tazieff una spina nel fianco (anche se il neoeletto presidente Mitterand lo nomina capo della Protezione civile, incarico che abbandona non appena si rende conto che si tratta di una nomina di facciata, frutto della sua enorme popolarità) soprattutto perché si troverà, più di una volta, a lanciare grida di allarme inascoltate. Nel ’74 evidenzia in un pamphlet il problema della plastica negli oceani: “L’inquinamento sta mettendo in pericolo il nostro bene più prezioso, l’acqua”. Nel 1979 partecipa a una trasmissione dedicata all’Antartico, sua antica passione. In studio, oltre al vulcanologo, è presente anche Cousteau. Alla domanda di un telespettatore che chiede se l’attività dei vulcani possa compromettere la stabilità della banchisa, Tazieff risponde che i vulcani non hanno nulla a che fare con lo scioglimento dei ghiacci.

 

Il vero responsabile del riscaldamento globale, a suo avviso, sarà l’inquinamento. Il moderatore gli dice che questo genere di affermazioni spaventano l’opinione pubblica, spalleggiato da Cousteau che aggiunge, con arroganza: “Ceci c’est du baratin”, sono solo chiacchiere. Più di quarant’anni dopo sappiamo chi avesse ragione. Non basta aver ragione per essere ascoltati, il cammino della scienza è lastricato di visionari che hanno lottato contro l’incredulità dei loro contemporanei, Tazieff è uno di loro. Il fatto di essere un outsider lo ha isolato ma lo ha reso unico. Haroun Tazieff era un ricercatore incuriosito dai segreti del mondo, il suo corpo a corpo con il fuoco, ai limiti del consentito, era mosso dalla sete di conoscenza, dal bisogno di capire cosa si nascondesse sotto la crosta terrestre. “Non è il pericolo che cerco, ma la difficoltà”. Ho detto che da ragazza mi ha spinto ad ammirarlo la ricerca di una figura paterna. Ma come padre effettivo Tazieff ha fallito. Suo figlio Frédéric non porta infatti il suo nome. Bizzarra storia questa. Frutto di un amore giovanile, Tazieff non lo ha mai riconosciuto, i loro rapporti sono stati sporadici e altalenanti. E però Frédéric ha fatto, di quel padre assente, un monumento. Ha seguito le sue tracce, diventando geologo/vulcanologo e ha istituito una fondazione in suo onore. In questo epilogo commovente ho notato un dettaglio: il cognome di Frédéric è quello della madre, Lavachéry. Lava-chérie, Mia Cara Lava.

 

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