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Una prima come non si è mai vista

Fabiana Giacomotti

Porte chiuse alla Scala, niente mondanità (ma Milano e la moda ci sono), la platea inghiottita dal palcoscenico. E una parata di stelle del canto per uno spettacolo che vuole lasciarsi alle spalle la pandemia. Questa sera in tv, qui raccontato in anteprima

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"Ian-tan-tan-tararaaa”. Sono le otto di venerdì sera, 4 dicembre, e siamo sedute, uniche spettatrici in un luogo progettato per ospitarne duemilatrenta, nel Palco degli Specchi in cui si riflette un Teatro alla Scala ipertrofico, un theatron che da osservato si è fatto osservatore di se stesso, annullando ogni altra figura e spazio: la buca dell’orchestra e la platea sono state letteralmente inghiottite dal palcoscenico, che si è proteso fino all’ingresso centrale come un’immensa colata di lava nera. Spiccano negli angoli, libere dalla poderosa struttura a doghe di legno dipinto, le poltroncine laterali che di solito sono le più scomode, ma che adesso rassicurano contro un effetto di straniamento che l’occhio, impigrito dalla lunga consuetudine a prospettive diverse, stenta un po’ ad afferrare. L’orchestra è stata montata al centro della sala, diremmo sopra le file M e N: al momento è vuota. Contiamo pochi elementi, gli indispensabili per accompagnare il canto di solisti e di uno spettacolo che, per rispondere a molte esigenze senza rinunciare a se stesso, si è fatto cinematografico e ne rispetta tutte le caratteristiche. Le “situazioni” sceniche sono già pronte per le riprese; i diversi piani narrativi con i loro movimenti di scena già calcolati; qui passerà il carrello; ecco il vagone sul quale si è appena esibita con il “don fatale” della sua sensualità Elina Garanca, intrigantissima Eboli del “Don Carlo” in abito in rosa fresia di Valentino ricamato in rosa e argento degradé su cui ci soffermeremo a lungo perché la moda è diventata elemento centrale, in questa “Prima della Scala” esclusivamente televisiva, fatta di grandeur popolare ma anche di dettagli, di simboli e metafore attorno alla pandemia e alla volontà di lasciarsela alle spalle, di “Riveder le stelle”. Il palcoscenico che, come Crono, ha assorbito ogni elemento temporale, ha inghiottito infatti anche la mondanità che fino all’anno scorso arricchiva, talvolta perfino sostituiva, la narrazione dell’opera e la sua rappresentazione. 

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"Ian-tan-tan-tararaaa”. Sono le otto di venerdì sera, 4 dicembre, e siamo sedute, uniche spettatrici in un luogo progettato per ospitarne duemilatrenta, nel Palco degli Specchi in cui si riflette un Teatro alla Scala ipertrofico, un theatron che da osservato si è fatto osservatore di se stesso, annullando ogni altra figura e spazio: la buca dell’orchestra e la platea sono state letteralmente inghiottite dal palcoscenico, che si è proteso fino all’ingresso centrale come un’immensa colata di lava nera. Spiccano negli angoli, libere dalla poderosa struttura a doghe di legno dipinto, le poltroncine laterali che di solito sono le più scomode, ma che adesso rassicurano contro un effetto di straniamento che l’occhio, impigrito dalla lunga consuetudine a prospettive diverse, stenta un po’ ad afferrare. L’orchestra è stata montata al centro della sala, diremmo sopra le file M e N: al momento è vuota. Contiamo pochi elementi, gli indispensabili per accompagnare il canto di solisti e di uno spettacolo che, per rispondere a molte esigenze senza rinunciare a se stesso, si è fatto cinematografico e ne rispetta tutte le caratteristiche. Le “situazioni” sceniche sono già pronte per le riprese; i diversi piani narrativi con i loro movimenti di scena già calcolati; qui passerà il carrello; ecco il vagone sul quale si è appena esibita con il “don fatale” della sua sensualità Elina Garanca, intrigantissima Eboli del “Don Carlo” in abito in rosa fresia di Valentino ricamato in rosa e argento degradé su cui ci soffermeremo a lungo perché la moda è diventata elemento centrale, in questa “Prima della Scala” esclusivamente televisiva, fatta di grandeur popolare ma anche di dettagli, di simboli e metafore attorno alla pandemia e alla volontà di lasciarsela alle spalle, di “Riveder le stelle”. Il palcoscenico che, come Crono, ha assorbito ogni elemento temporale, ha inghiottito infatti anche la mondanità che fino all’anno scorso arricchiva, talvolta perfino sostituiva, la narrazione dell’opera e la sua rappresentazione. 

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Una Prima a porte chiuse, registrata, senza il coté sciure con i gioielli di famiglia disposti a raggiera sulla scollatura vizza, senza i ministri che confessano immancabilmente la loro “prima volta” stringendosi alla gentile accompagnatrice sempre troppo lucida e pittata per le perfide signore milanesi (lo scorso anno ne uscì indenne giusto Maria Elena Boschi; poi si scoprì che era passata dall’atelier del signor Armani dove l’avevano vestita, truccata e le avevano lisciato e legato i capelli, annullando ogni ricordo di boccoli tirabaci che a Milano sono uno stigma sociale) senza quelli che “Verdi è sempre Verdi” e il regista un iconoclasta, sarebbe stata una Prima sottotono, dimenticabile. La musica non è e non è mai stata sufficiente a fare spettacolo; non lo è nemmeno quando è interpretata, come questa volta, dall’internazionale cantanti più poderosa che si sia vista dai tempi del Gala del Metropolitan del 1963, un elenco all star che comprende Ildar Abdrazakov, Roberto Alagna, Carlos Alvarez, Piotr Beczala, Benjamin Bernheim, Eleonora Buratto, Marianne Crebassa, Plácido Domingo, Rosa Feola, Juan Diego Flórez, Elina Garanca, Vittorio Grigolo, Aleksandra Kurzak, Francesco Meli, Camilla Nylund, Kristine Opolais, George Petean, Marina Rebeka, Luca Salsi, Ludovic Tézier, Sonya Yoncheva e naturalmente Lisette Oropesa, Lucia di Lammermoor mancata a causa del maledettissimo Covid che ha dettato tempi e modi di questo 7 dicembre, ma l’ha fatto, oseremmo dire suo malgrado perché ognuno ormai ne parla come di un nemico personale, per permettere di costruire uno spettacolo oggettivamente sontuoso. Facile anche, e orecchiabile, e vicino alla sensibilità più trasversale possibile per età e cultura: la Rai lo trasmetterà in streaming in tutto il mondo, e dunque tutto ci vuole. Anche il cicaleccio, anche la distrazione estetico-vestimentaria è parte integrante del mito della Prima nel “tempio della lirica” che, un secolo dopo l’altro, si è trasformato in insegna e simbolo dell’esclusione culturale ed economica; ed è proprio questo l’aspetto di lettura della realtà scaligera che il sovrintendente Dominique Meyer vuole evitare a tutti i costi e non solo perché “inclusione” è una delle parole dell’anno insieme con “sostenibilità”. 

  
A metà di questo pomeriggio di neve e pioggia, l’antico sodale di Jack Lang e del grandioso progetto culturale popolare che fece rinascere Parigi fra gli anni Ottanta e Novanta si è collegato in streaming con qualche centinaio di “under 30”, la nazionale pulcini dei melomani, e ha ripetuto la parola “emozione” una volta al minuto, circa: la musica è emozione, è emozione di cuore e ma anche “di ventre” ha detto toccandosi la pancia, insomma roba per me ma anche per te, senza preclusioni e stavolta, diremmo noi, anche senza il biglietto a 2.700 euro per godersela. “L’opera è semplice”. Realizzarla, molto meno. 

 
“Ian-tan-tan-tararaaa: alzate le mani, e al primo tempo imprimete più forza al movimento, è valzer, un tan tan, ruotate ruotate, woo, woo”. Il regista Davide Livermore volteggia al ritmo dell’aria più odiata dal femminismo, “La donna è mobile”. Decenni di dotte spiegazioni sulla lettura politica che gli austriaci avevano dato di “Rigoletto”, di prove del disprezzo con cui Giuseppe Verdi e Francesco Maria Piave tratteggiano la figura del Duca di Mantova e il suo ispiratore, Francesco I Valois che prima aveva messo a ferro e fuoco mezzo nord Italia e poi ne aveva sedotto le femmine motteggiando sprezzante sulla loro leggerezza (“souvent femme varie, bien fol est qui s’y fie”) non hanno mai convinto le signore, che sentono di donne mobili qual piume, mute d’accento e di pensier, e ogni volta non riescono a reprimere un fremito di rabbia. Il regista è in cardigan ciclamino e galoche verdi, indispensabili per percorrere a larghi passi la bassa piscina montata davanti al vidiwall immenso dal quale si diffonde il video, invero calmante, di migliaia di piume che volteggiano anche loro, ma su sfondo nero. Ciaf ciaff ciaff. “Qui, qui e qui”. Arrivano i falegnami, montano tre piattaforme di legno in mezzo all’acqua. “Le signore come saranno vestite?”. Pare di rosso e di rosa. Al momento, le ballerine che devono volteggiare sull’um-pa-pa sono in accademico nero e fanno da corona a Vittorio Grigolo, Duca di Mantova stravaccato su una poltroncina nera (“ma sì, facciamolo spavaldo”) in mezzo allo specchietto d’acqua, che in tv sembrerà il Mincio o forse il lago nero della sua coscienza di stupratore per noia, chissà. Prima di attaccare con il La della prima battuta deve fissare intensamente una piuma bianca a favore di telecamera, posarsela sul palmo e soffiarla via. Siamo sedute nel Palco degli Specchi, dunque lontanissimo dalla poltroncina e dal suo arguto occupante, ma potremmo giurare che stia atteggiando il volto a quelle espressioni da sciupafemmine per cui va famoso fin dai tempi in cui era diventato un beniamino della moda e cantava alle cene degli stilisti e dei calendari famosi, courtesy Franca Sozzani che lo idolatrava. Ne ha dato prova pochi minuti prima dietro il vidiwall, per una serie di scatti destinati a un altro quotidiano, in giacca e pantaloni attillatissimi, appoggiandosi al corrimano: “Ecco il tenore alle corde, o meglio il tenore ha le corde, non è un bel titolo?”. 

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Jonas Kaufmann aveva insistito per cantare l’aria più famosa della serata, il “Nessun dorma” dalla “Turandot” che francamente gli si addice zero, essendo lui tenore di voce scura, perfetta per i ruoli wagneriani; essendo però e senza dubbio alcuno la star più in vista della serata era stato accontentato. Gli è venuta la febbre ed è stato sostituito da Piotr Beczala. Il timore del virus, influenza o Covid che sia, è lo spettro di Banquo, la statua del Commendatore, insomma l’argomento dominante, insieme con le arie e i balletti già registrati da offrire ai tg e a “Domenica In” per l’anteprima. Che cosa sarà meglio per il pubblico di Mara Venier? La Habanera o Bolle? si domanda Paolo Besana, direttore della comunicazione, che anche lui volteggia fra un piano e l’altro nelle sue francesine lucide, leggerissimo nonostante l’altezza, e rassicura, rilegge il cronoprogramma delle prove, offre soluzioni e non perde mai la pazienza e francamente non sappiamo come ci riesca. La pressione della stampa mondiale e delle televisioni aumenta a ogni minuto. Tutti vogliono qualcosa di diverso. “Sono negativo”, lancia qui e là Luca Salsi, occhialini tondi e jeans, prima di inginocchiarsi davanti ai cortigiani vil razza dannata che gli hanno rapito la figlia e che Livermore, sempre un po’ sedotto dal lato oscuro del potere e il fascino delle divise, ha dotato di rivoltelle da abbassare e puntare a ritmo di musica: “Sono negativo ma positivo, di umore. Forza, proviamo, così si torna a casa prima stasera”. 

 
Musica, molto mestiere, voci riscaldate su e giù per le infinite scale, i corridoi, i retropalchi allestiti come camerini per gli attori a cui spetta il compito di collegare, cucire le varie parti dello spettacolo, alle attrici che appariranno come ombre, simboli, ologrammi. Leggiamo sul programma il nome di Jean Racine, nostro diletto: visto che il programma musicale della serata si apre sull’“Adriana Lecouvreur”, pensavamo a un brano dal “Bajazet”. Invece no, sarà “Fedra”. Livermore gioca sul sicuro, e ha ragione. Chiedete la vostra aria preferita, l’avrete. Noi avremmo già voluto ascoltare Ildar Abdrazakov nel “Don Carlo”; per il momento l’abbiamo visto fotografato, con cappottone Dolce&Gabbana, da Stefano Guindani che era l’unico professionista in grado di rispettare le esigenze della cronaca e quelle della moda. Uno spettacolo multiforme come questo, organizzato in tempi proibitivi, non avrebbe potuto reggere su un progetto di costume a meno di non darsi altri tre mesi di tempo, e non poteva. Non poteva nemmeno, ci scusino le soprano ma negli anni abbiamo visto in scena veri atti di autolesionismo, affidarsi esclusivamente al loro gusto. Dunque, ecco la moda arrivare in soccorso di uno spettacolo lirico con capi di passerella, e il costumista di fiducia di Livermore, Gianluca Falaschi, accettare di buon grado (e, va detto, con gran divertimento) il ruolo di maestro concertatore dei guardaroba. In gergo modaiolo, stylist. Quando lo incontriamo, nell’ufficio di Besana che gli chiede come stiano “andando i fitting” per redigere il comunicato sul chi-veste-chi, informazione attesissima dai giornali per le ragioni sopradette, sono ormai passate le nove di sera e Stella Giannetti, abilissima e inflessibile responsabile celebrities di Giorgio Armani, arrivata appositamente da Roma, lo sta aspettando nella boutique di via sant’Andrea per un’ultima selezione.

 
Nessuno degli stilisti scelti grazie all’accordo con Camera nazionale della Moda, una rosa ristrettissima che oltre a Valentino e Armani comprende Dolce&Gabbana, Marco De Vincenzo, Curiel e Gianluca Capannolo, questi ultimi due fortemente voluti da Donatella Brunazzi, direttore del Museo Teatrale con lunghissimi trascorsi nell’alta moda, si aspettava di prevalere sugli altri per numero di cantanti e attori vestiti. Di certo, e come ampiamente prevedibile, fra Armani e Dolce&Gabbana si è andati al testa a testa: il primo si è assicurato le voci femminili più in vista, da Lisette Oropesa alla mezzosoprano francese Marianne Crebassa, la Carmen, quindi il soprano lettone Kristine Opolais nel “Tu, piccolo iddio” da “Madama Butterfly” di Puccini. Dolce&Gabbana, invece, hanno dato prova della modularità dei loro abiti (parlare di misure è politicamente molto scorretto) vestendo Eleonora Buratto, interprete di “Morrò, ma prima in grazia” da “Un ballo in maschera” di Verdi e Rosa Feola che veste i panni di Norina nell’“Elisir d’amore” di Donizetti con l’aria “So anch’io la virtù magica”; la bulgara Sonya Yoncheva, Maddalena di Coigny ne “La mamma morta” da “Andrea Chénier”, l’attesissimo grido di speranza di questo percorso scenico “ad astra per aspera”; la polacca Aleksandra Kurzak con l’aria “Signore, ascolta” da “Turandot” di Puccini e la lettone Marina Rebeka, che presenta “Un bel dì vedremo” da “Madama Butterfly”. Falaschi, ragazzo garbato, definisce quella di Dolce&Gabbana “un’idea di femminilità che ne abbraccia tante”. Lo scambio fra moda e costume non è sempre stato facile: lui pare averlo favorito approcciando le maison con l’interesse lieve dell’apprendista che non è. Dall’archivio Curiel è uscito il celebre “abito cigno”, già protagonista di una Prima, per vestirne Laura Marinoni, che lo alternerà con un abito couture di Gianluca Capannolo: speriamo davvero che questa occasione contribuirà al suo rilancio di stilista sobrio e poetico. 
Qualcosa esce anche dagli archivi scaligeri, in omaggio allo scenografo e costumista più longevo e amato del teatro, Pierluigi Pizzi: Falaschi ha vestito con una sua celebre cappa Camilla Nylund, interprete con il tenore Andreas Schager del duetto “Winterstürme wichen dem Wonnemond” dalla “Valchiria” di Wagner. Di suo, ha ripreso i costumi dall’allestimento di “Tosca” del 2019 e del “Don Pasquale”. In Valentino anche Michela Murgia, volutissima da Livermore per leggere un proprio testo: l’abbiamo incontrata qualche settimana fa mentre faceva colazione al De Russie di Roma, oggi compare in organdie  rigido haute couture, sempre più inserita fra i modi e gli usi del mondo che meno le piace. Non sappiamo ancora quando reciterà il suo monologo. Però sappiamo quel che rapirà il cuore dei milioni di spettatori collegati, e saranno i cinque minuti di immagini aeree di Milano girate nelle ultime notti di novembre dai droni magici di D-Wok in bianco e nero. Avevamo promesso che non ve l’avremmo svelato, ma non possiamo farne a meno, perché dovreste accendere la tv, collegarvi a Raiplay, a Facebook, a quel che volete voi solo per questo: per vedere quanto è bella, elegante, pudica questa città ferita e maltrattata. Per i milanesi non potrà mai esserci regalo più grande di questo atto di amore, questo “Rivedere le stelle” in diretta mondiale.
 
 

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