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Duro e puro

Gaia Manzini

La bellezza effimera del ghiaccio e il suo senso di eternità. Il nord come un’idea che spinge oltre i propri limiti e accende le passioni. Un libro

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Essere o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine”, Amleto è al centro del palco sotto un lampadario di cristalli di ghiaccio. E’ una scena nuda quella creata dal grande regista lituano Eimuntas Nekrošius. Nuda, fredda, disperata. Amleto è solo. E’ l’uomo più solo del mondo, stretto nell’eterno dilemma, mentre sopra di lui il grande lampadario si scioglie: gli cade addosso goccia dopo goccia, pronto a rendersi evanescente, fantasma di se stesso. E, mentre i cristalli di ghiaccio gocciolano, sciolgono la camicia di carta che Amleto indossa, rendendo eterna e contemporanea la caducità e la natura effimera della vita umana. Il ghiaccio, sì, e il suo fascino immenso. Nulla è così grandioso, spettacolare, e apparentemente invincibile come il ghiaccio. Nulla è così transitorio.

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Essere o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine”, Amleto è al centro del palco sotto un lampadario di cristalli di ghiaccio. E’ una scena nuda quella creata dal grande regista lituano Eimuntas Nekrošius. Nuda, fredda, disperata. Amleto è solo. E’ l’uomo più solo del mondo, stretto nell’eterno dilemma, mentre sopra di lui il grande lampadario si scioglie: gli cade addosso goccia dopo goccia, pronto a rendersi evanescente, fantasma di se stesso. E, mentre i cristalli di ghiaccio gocciolano, sciolgono la camicia di carta che Amleto indossa, rendendo eterna e contemporanea la caducità e la natura effimera della vita umana. Il ghiaccio, sì, e il suo fascino immenso. Nulla è così grandioso, spettacolare, e apparentemente invincibile come il ghiaccio. Nulla è così transitorio.

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Nonostante l’impresa al Polo Sud, è il Nord a incantare Amundsen nella sua spedizione a bordo del dirigibile Norge. “La vecchia immagine del ghiaccio crudele e vendicatore è stata sostituita dall’idea di una cosa fragile che scompare senza lasciare traccia”

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E’ questo che racconta Enrico Camanni nel Grande libro del ghiaccio (Laterza), libro in cui confluiscono l’esperienza di narratore e giornalista e quella dell’alpinista.

 

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 Cosa deve aver provato Amundsen davanti alla distesa dei ghiacci dei poli? Roald Engelbregt Gravning Amundsen era nato nel 1872 a Borge, ottanta chilometri a nord di Oslo. Non era un visionario e riteneva che l’avventura fosse nient’altro che un difetto di pianificazione. Tuttavia, aveva lasciato gli studi di medicina per dedicarsi alle esplorazioni. Tutti lo consideravano un ottimo marinaio e un valido sciatore. Anche se viene ricordato come l’uomo del Polo Nord, già nel 1911 si era ritrovato a gareggiare contro l’inglese Robert Falcon Scott per la conquista dell’Antartide. Non era vittima dell’eroismo, Amundsen, ma un uomo pratico che non affrontava mai imprese inutili. La sua spedizione arrivò al Polo Sud trentacinque giorni prima di quella inglese.

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Il fascino delle avventure tra i ghiacci non si trova solo nella loro potenza narrativa, ma anche nella forza simbolica che sprigionano. I poli sono luoghi in cui i cicli vitali si succedono sempre uguali. L’ossessiva reiterazione di giorni, stagioni, anni e secoli “diventa metafora dell’eternità di Dio. La ripetizione come annullamento temporale e spaziale. Il tentativo umano di penetrarne il mistero, quindi, è destinato a fallire”. Nonostante l’impresa al Polo Sud, è il Nord a incantare Amundsen nella sua spedizione a bordo del dirigibile Norge. Ed è lì, tra i ghiacci dell’Artide, che scomparirà per sempre quando nel 1928 andrà in soccorso di Umberto Nobile. Pare che in un’ultima intervista avesse dichiarato: “Ah sapeste com’è bello il paesaggio lassù! E’ lì che vorrei morire, vorrei una morte cavalleresca, che mi cogliesse nel corso di una grande impresa, una morte rapida e indolore”. Il nord è prima di tutto un’idea, scrive Camanni: un’idea che si sottrae a ogni tentativo di raggiungerla. Un’idea che ci spinge oltre i nostri limiti.

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Anche la scrittrice Mary Shelley era stata affascinata da un mare di ghiaccio, sebbene nel suo caso si trattasse del ghiacciaio del Monte Bianco. Nel 1816, in viaggio insieme al marito e a George Byron, aveva avvertito tutta la forza candida e purissima del ghiaccio perenne. Due anni dopo venne dato alle stampe Frankenstein. Ed è proprio tra i ghiacci che si incontrano lo scienziato e la sua mostruosa creatura. E’ al Polo Nord che si ritrovano prima di separarsi per sempre: il nord, dove si è dentro una pagina bianca, qualcosa che viene prima o che segue la natura umana; è lì che tutto finisce e che tutto può iniziare di nuovo.

 

C’è un senso di eternità nel ghiaccio. Eppure è di pochi giorni fa la notizia, pubblicata su Nature Communications Earth & Environment, dello scioglimento ormai irreversibile della calotta glaciale della Groenlandia. “Nell’ultimo decennio l’immaginario è profondamente cambiato. Da quando gli scienziati ammoniscono l’umanità sulle conseguenze dell’effetto serra e nelle case, nelle scuole e nelle piazze la gente discute di riscaldamento globale”, riflette Camanni, “il ghiaccio è diventato il simbolo della materia preziosa ed effimera. Vedendo gli orsi polari che vanno alla deriva sulle zattere di ghiaccio, guardando gli iceberg che si disfano come castelli di carta, anche le persone distratte si sentono coinvolte e la paura e la presa di distanza di un tempo lasciano il posto allo stupore, all’identificazione e addirittura al rimpianto verso una meraviglia della natura che era nostra e forse non lo sarà più. Perché il ghiaccio è il termometro più visibile del cambiamento climatico e la fulminea fusione del ghiaccio e dei ghiacciai è la rappresentazione più inequivocabile dello squilibrio ambientale. In pochi anni la vecchia immagine del ghiaccio crudele e vendicatore è stata sostituita dall’idea di una cosa fragile che scompare senza lasciare traccia”.

 

La storia della regina Margherita e dell’amico barone Luigi Beck Peccoz. Il Karakorum e il business turistico himalayano. Ai piedi del Monte Rosa i montanari walser collocarono la leggenda della città di Félik, un luogo di delizie e piaceri

Ancora abbiamo negli occhi le immagini dell’orso bianco magrissimo che sta morendo di stenti; ancora ci chiediamo dove sia andata a finire la forza dei ghiacci, quella che ha fatto affondare il Titanic – era una vera montagna di ghiaccio alla deriva quella che nel 1912 colpì di striscio il grande transatlantico; i piloti lo sapevano, sapevano quanto fosse difficile navigare in quelle acque senza binocoli e si affidarono solo alla buona sorte. Ancora ci chiediamo se il ghiaccio del Grande Nord sia capace di conservare il cuore selvaggio di Jack London. Il Buck del Richiamo della foresta è uno dei personaggi più belli di tutta la letteratura. Jack London era Buck e Buck era Jack London. Il cane che ha l’aspetto di un lupo vive protetto nella proprietà del giudice Miller, almeno fin quando non viene rapito dal giardiniere e venduto a un trafficante che viaggia verso il Klondike, dove sta imperversando la corsa all’oro. Eppure, quella di Buck non è la storia di una perdita ma di una conquista. Sta tornando nel cuore delle cose selvagge e primordiali. Mentre rincorre una lepre, Buck sente la sua natura risvegliarsi: tutto è vivo in lui, tutto è movimento e respiro. The Call of the Wild racconta dell’ineluttabilità di un destino, dell’ossessione di seguire la propria natura profonda. Non poteva che avvenire tra la distesa di gelo del Grande Nord, nel suo silenzio sonoro, dove nulla si può nascondere e tutto rivela sé stesso.

 

Il ghiaccio ha conservato per anni un’idea di purezza intoccabile e di felicità altrettanto duratura. C’è un posto nell’alta Valle del Lys, ai piedi del Monte Rosa, racconta Camanni, in cui i montanari walser collocarono la leggenda della città di Félik, un luogo di delizie e piaceri preservato dall’invidia degli uomini e dalle insidie dei ghiacciai. A Félik crescevano le piante da frutto a duemila metri e i bambini giocavano con i dischi di formaggio. D’estate faceva caldo e d’inverno non si pativa il freddo, il cibo non mancava e la gente viveva bene. Le nonne raccontavano ai bambini di questo paradiso perduto per farli addormentare. I piccoli abitanti di Gressoney erano convinti che esistesse un luogo incantato che apparteneva alla terra dei loro antenati, aldilà del Monte Rosa. Nel 1778 sette di quei bambini, ormai ragazzi, partirono per una spedizione nostalgica. Con il gusto della scoperta mitologica, si avventurarono fino a quattromila metri. Dal promontorio roccioso i giovani non videro i mitici prati in fiore dei loro avi ma le infinite distese del Gornergletscher, il fiume di ghiaccio che precipita su Zermatt. Rimasero delusi, ma la loro avventura segnò la nascita dell’alpinismo.

 

Nessuno sa esattamente dove si trovi il paradiso perduto dei walser, molti hanno provato a immaginarlo. Forse si tratta della distesa morenica del Lys. Anche se non c’è un resto di casa, un segno di abitazione, lì probabilmente è stata immaginata una città felice che colmava la nostalgia del popolo migrante dei walser.

 


Foto LaPresse


 

Probabilmente in cerca di un luogo pulsante di felicità era anche la regina Margherita. “La regina d’Italia Margherita di Savoia scopre la piana di Gressoney Saint-Jean sul finire degli anni Ottanta, se ne innamora e la sceglie come villeggiatura. Ogni estate l’amico barone Luigi Beck Peccoz, un gentiluomo vecchio stampo di origine svizzera, le cede galantemente la sua villa sulla riva del Lys, il torrente che porta il nome del giglio, e si ritira con discrezione in un’altra proprietà”. E’ questa una storia d’amore bellissima legata al ghiaccio, alla forza della montagna. La regina Margherita era una donna forte, che sapeva nascondere la sua insoddisfazione; che forse vedeva nel camminare e nell’ascendere un percorso di purezza. Insieme all’amico barone, organizza una spedizione notturna alla Testa Grigia: è da lassù che lei vuole vedere l’alba. Vedere l’alba come una giovane donna innamorata. Torna a Gressoney accolta dal grido “Viva la Regina alpinista”! Nel 1892, un gruppo di guide porta Margherita sul ghiacciaio del Lys e sulla Punta Gnifetti, a 4.554 metri, passando accanto alla mitica Roccia della Scoperta. Le cronache raccontano che, soffrendo un po’ d’insonnia, la sovrana trascorse la notte nell’altissima capanna che porterà il suo nome. Sono i ghiacciai la passione comune che tiene insieme Margherita e il barone Peccoz. Nel 1894 i reali, ospiti a Gressoney, organizzano un’altra ascensione al Lys per raggiungere Zermatt. Margherita insiste perché Peccoz li accompagni. Immagino l’insistenza, la complicità amicale, il desiderio di condividere una vista da togliere il fiato. E così salgono insieme, ma mentre lei si perde nell’accogliere con lo sguardo tanta immensità, l’amico si accascia a terra colpito da un attacco di cuore. Colpa dell’altitudine e dell’amore per Margherita.

 

Il ghiaccio, solido come una promessa d’amore. Lo sa bene Levin che scorge Kitty sulla pista di pattinaggio. Ci sono moltissime persone, ma lui vede solo lei. Il piccolo lago ghiacciato, in Anna Karenina, sottolinea la purezza del sentimento di Levin, la veridicità della sua emozione.

 

Camanni ci accompagna in un viaggio attraverso tutte le declinazione del ghiaccio. C’è la Groenlandia, ci sono i poli, le Alpi; c’è Ötzi, l’ormai famoso montanaro morto e congelato sul Similaun, 3.200 anni prima di Cristo. Ci sono i nevaioli, ovvero i primi gelatai. C’è l’invenzione dello sci come sport invernale e Conan Doyle alle prese con la traversata da Davos ad Arosa. Ci sono i frigoriferi, la neve sparata e quella naturale; l’abilità delle guide alpine e l’evoluzione di piccozze e ramponi. E poi c’è anche la corsa alla purezza, il turismo che ha fatto dell’Himalaya una meta quasi per tutti.

 

Quando sono stata sul Karakorum, ci sono andata in pullman: non avevo alcuna ambizione come scalatrice. Sapevo che sarei salita fino alla capitale del Ladakh (3.400 metri circa sul livello del mare) e da lì mi sarei avventurata in qualche trekking, nulla più di questo. Non ho potuto, però, contenere la meraviglia per quanto mi circondava. Era una meraviglia strettamente connessa alla vastità, all’imponenza di quelle montagne che apparivano ai miei occhi come infinite cattedrali. “Mi volto. Dinanzi a me, sopra di me, terribilmente addosso, vicinissimo e lontanissimo allo stesso tempo, il Kangchenjunga, una delle più alte montagne del mondo, scintilla nel sole come un castello incantato d’argentee sostanze lunari” scriveva Fosco Maraini. Dopo Reinhold Messner e Peter Habeler, dopo Jerzy Kukuczka scalare il mondo non è stata più un’impresa per titani. Il business himalayano non si è più fermato: nella stagione pre-monsonica del 2019, il ministero del Turismo nepalese ha rilasciato 868 permessi di scalata sul territorio nazionale, in particolare per l’Everest, il Lhotse, il Makalu e l’Ama Dablam. Ricordo le fotografie con le cordate incolonnate all’Hillary Step come ai grandi magazzini. In quel momento il simbolo di maggiore inaccessibilità del pianeta si è trasformato in un affollato luogo di consumo.

 

Il ghiaccio, così come il fuoco, è un motore letterario per la nostra stessa vita. E’ purezza ineguagliabile; è chiarezza d’intenti, eroismo delle emozioni. Eppure è ormai qualcosa di violato. Le nostre certezze si sono sciolte. Il nostro Paradiso perduto non è più la città felice che prosperava sulla montagna nel mito dei walser. “Il nostro mondo perduto, la nostra nostalgia, è esattamente quella montagna fatta di neve e inverno”. Mentre si sciolgono le nevi e i ghiacciai scivolano verso valle o negli oceani, si dissolve anche un ideale di purezza e nitore.

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