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Alla fine “le femministe mi hanno sempre assolto”. Parla Milo Manara

Gianmaria Tammaro

Da Pratt a Fellini, da Villaggio alla pandemia, dalla quale “purtroppo penso che ne usciremo peggiori. Saremo tutti più poveri, più affannati e più arrabbiati”. Il mondo visto dall'illustratore e fumettista

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Nella voce di Milo Manara – illustratore e fumettista, classe ’45 – rivivono epoche intere. Parla di eleganza, di libertà, di disegno. Unisce i puntini della sua vita, le persone che ha conosciuto, e traccia un quadro enorme e meraviglioso, in cui Federico Fellini e Hugo Pratt sono sullo stesso piano, avvicinati dalle coincidenze (“la notte del 20 agosto 1995 ero a Roma, per la prima di un balletto dedicato a Fellini e di cui avevo curato i costumi; quella stessa notte, mi chiamò Vincenzo Mollica per dirmi che Pratt era morto”). Mette ordine ai pensieri e ricostruisce i fatti con pennellate ampie e convinte di parole. Partiamo dalla fine, dallo scorso marzo. “Ogni anno preparo un disegno per celebrare la giornata della donna. Questa volta ho voluto provare a celebrare anche le infermiere delle terapie intensive, di cui cominciavano a circolare le prime fotografie: bardate, con i volti nascosti dalle mascherine, le guance segnate e gli occhi stanchi”.

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Nella voce di Milo Manara – illustratore e fumettista, classe ’45 – rivivono epoche intere. Parla di eleganza, di libertà, di disegno. Unisce i puntini della sua vita, le persone che ha conosciuto, e traccia un quadro enorme e meraviglioso, in cui Federico Fellini e Hugo Pratt sono sullo stesso piano, avvicinati dalle coincidenze (“la notte del 20 agosto 1995 ero a Roma, per la prima di un balletto dedicato a Fellini e di cui avevo curato i costumi; quella stessa notte, mi chiamò Vincenzo Mollica per dirmi che Pratt era morto”). Mette ordine ai pensieri e ricostruisce i fatti con pennellate ampie e convinte di parole. Partiamo dalla fine, dallo scorso marzo. “Ogni anno preparo un disegno per celebrare la giornata della donna. Questa volta ho voluto provare a celebrare anche le infermiere delle terapie intensive, di cui cominciavano a circolare le prime fotografie: bardate, con i volti nascosti dalle mascherine, le guance segnate e gli occhi stanchi”.

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Dopo questo primo disegno, ne sono arrivati altri: poi raccolti in “Lockdown Heroes” di Feltrinelli Comics.

“Io e mia moglie eravamo chiusi in casa, e la spesa ce la faceva nostra figlia. Per questo motivo ho cominciato a pensare a tutte quelle persone che, nel periodo della quarantena, erano in prima linea, per noi, al lavoro”.

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Ma perché ha scelto proprio le donne?

“Avendole disegnato per tutta la vita e dovendo scegliere un simbolo, ho scelto loro. Ho sempre disegnato le donne per celebrare la loro bellezza. Stavolta, però, è stato diverso. Volevo celebrare altre virtù. Il coraggio, l’altruismo, la forza di volontà. Lo spirito di sacrificio”.

 

Non c’è il rischio di essere accusati di sessismo?

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“È un rischio che corro da cinquant’anni. Per questi disegni, però, non mi pare ci siano state critiche. Nel corso della mia carriera, certo: ce ne sono state. Ma sa qual è la cosa strana?”

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Quale?

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“Non sono mai arrivate dalle femministe. Ho partecipato a tantissimi incontri di tantissime associazioni. E in genere mi hanno sempre assolto: mi hanno graziato, diciamo così”.

 

Come crede che usciremo da questa pandemia?

“Purtroppo penso che ne usciremo peggiori. Saremo tutti più poveri, più affannati e più arrabbiati”.

 

Perché?

“Siamo sotto la dittatura ferrea della finanza, che ci obbliga a una continua corsa contro gli altri. Siamo tutti contro tutti. E addirittura siamo contro chi, per salvaguardare la salute, ci chiede di chiudere le nostre attività e di fermarci”.

 

Si respira, a tratti, una certa disperazione.

“Capisco chi, per anni, ha lavorato per costruirsi una vita dignitosa. E che ora, con le varie chiusure, la vede sfumare. Le colpe ci sono, certo, ma non sono colpe così facili da individuare: non c'è un cattivo preciso; non basta puntare il dito contro qualcuno”.

 

In che mondo viviamo, oggi?

“Questo senso di rilevanza, di affermazione, si è acuito e ha inasprito tutti gli animi. Viviamo in un mondo in cui fermarsi è impossibile. E questa volta siamo stati costretti – ripeto, costretti – a fermarci”.

 

Cos’è che manca, secondo lei?

“Forse il senso di comunità, la comprensione, l’empatia”.

 

Cosa dovremmo fare?

“Bisogna darsi una calmata e provare ad affrontare una situazione a cui, semplicemente, non siamo preparati. Perché, vede, la verità è anche questa: siamo stati deresponsabilizzati nel tempo. E manca proprio un’idea di condivisione e di comunità. Ognuno pensa per sé”.

 

C’è una divisione profonda.

“C’è chi combatte per sopravvivere, e c’è chi combatte per accumulare ricchezze. Ma è sempre un combattimento: sempre. E la vita dovrebbe essere altro. La vita è una competizione, lasciamolo cantare ai cantanti. Perché non è vero. La vita dovrebbe essere convivenza, crescita; dovrebbe essere – se Dio vuole – felicità”.

 

Venticinque anni fa, moriva Hugo Pratt. Che mondo era, invece, quello in cui vi siete conosciuti?

“Diverso. Non c’era la ferocia del pensare unicamente a sé stessi. C’era, forse, più povertà: ma non c’erano queste differenze così abissali. Se vogliamo, era un mondo più limitato”.

 

Limitato come?

“Non c’era Internet. Mancavano le comodità che abbiamo oggi. Pratt, pensi, aveva una biblioteca di 30mila volumi. Ed erano tutti di documentazione. Aveva un metro – un metro, letteralmente – di libri sui tori da combattimento”.

 

E lei l’ha aiutato a spostare questi libri.

“Avevo un camper. Di solito facevamo dei viaggi molto lunghi insieme, in giro per l’Europa, diretti ai vari festival del fumetto. Qualche volta, però, usavamo questo camper anche per i suoi traslochi. Pratt aveva molte case. A Roma, a Venezia, a Milano. Ed eravamo sempre in giro, dall’una all’altra”.

 

Ma chi era Pratt?

“Era il suo Corto Maltese. Condividevano il senso e l’amore per la grande avventura. Era un gentiluomo, Pratt. Era curioso, era enciclopedico. Quando una cosa gli interessava, voleva sapere tutto. La sua vita è stata la vita di un uomo avventuroso. A venti anni lasciò Venezia e andò in Argentina. Per mantenersi cantava e suonava la chitarra sui treni. Aveva una bellissima voce da baritono. Cantava vecchie ballate irlandesi, tramandategli dal padre. Non ho mai conosciuto uomini più liberi”.

 

Ma ne ha conosciuti altri, immagino.

“Anche Paolo Villaggio era un uomo libero, e Pratt e Villaggio erano molto amici. Ma se Pratt era un viaggiatore, Villaggio era più sedentario. Uno voleva muoversi fisicamente, l’altro usava solo la sua mente”.

 

E Federico Fellini?

“Fellini era un uomo libero, ma riversava tutta la sua libertà nel cinema: in quello che faceva. Era anche un uomo molto convenzionale: non faceva una vita particolarmente eccentrica, o almeno non conduceva una vita del genere nel periodo in cui ci siamo frequentati”.

 

Lei, una volta, passò la notte con Fellini.

“Mi è capitato anche questo, sì. Eravamo a Chianciano, dove Fellini aveva l’abitudine di passare l’estate, e stavamo lavorando a Viaggio a Tulum, il suo fumetto. Una sera, si fece particolarmente tardi e mi consigliò di rimanere lì a dormire. Visto che era alta stagione, però, non c’erano posti disponibili. E così Fellini chiese al suo albergo di portare una brandina nella sua stanza. Per quella notte, dormii con lui e Giulietta Masina”.

 

Il 9 agosto è scomparsa Franca Valeri. Vi siete conosciuti in giuria a Miss Italia nel 1988.

“Ero molto imbarazzato, confesso. Di solito rifiuto di fare parte delle giurie. Quell’anno il presidente era Gianni Boncompagni e c’era anche Franca Valeri. Era una donna incredibile, di un’intelligenza unica: l’ho sempre ammirata. Cominciai a copiare i suoi giudizi, e per fortuna che eravamo seduti vicino: lei ne era totalmente consapevole e ogni tanto spostava i fogli per farmi vedere meglio”.

 

Il mondo di cui parla, la generazione che ricorda – una volta, ecco, si stava davvero meglio?

“Lo so che i vecchi, proprio perché vecchi, a questo genere di domande dicono di sì. Ma se devo essere onesto, è così. Viviamo in un altro mondo e ad essere cambiate sono le persone. La comunicazione è dominata dalla sguaiatezza e, mi sembra, dalla mancanza di dignità”.

 

Qual è la radice del problema?

“Stiamo vivendo una crisi estetica”.

 

“Chi parla male, pensa male. E vive male”, direbbe Nanni Moretti.

“La forma può diventare sostanza. Nell’arte, anzi, la forma è la sostanza. E quindi forse è un mio vizio. Ma la forma intesa come modo di vivere è una cosa importante ed è, soprattutto, determinante”.

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