Quando un videogioco spinge a sviluppare responsabilità per le proprie azioni virtuali

Andrea Cassini

Lasciate fuori i messaggi sociali e le tematiche morali dai videogiochi, sembrano dire alcuni, perché vogliamo che restino un giardino dove sfogarci e sparare impunemente

E’ notizia recente che Hideo Kojima, videogame designer giapponese creatore della serie Metal Gear Solid, farà parte della giuria della prossima Biennale di Venezia. Un importante attestato di stima per i videogiochi, la cui valenza artistica non dovrebbe ormai essere più messa in discussione. Se nonostante la giovane età del medium possiamo già considerarlo espressione artistica a tutti gli effetti, lo dobbiamo anche al primo capitolo di The Last of Us, scritto da Niel Druckmann per Naughty Dog nel 2013: un lavoro che invitò la critica videoludica a uscire dalla nicchia e suscitò stimolanti paragoni cinematografici e letterari. Da allora, tali paragoni stanno diventando sempre meno necessari per inquadrare le qualità espressive del mezzo videoludico, che diventa passo passo più maturo e cosciente delle proprie peculiarità, fino al punto in cui potrà forse emanciparsi pienamente.

  

The Last of Us Parte II segna una nuova tappa in questo percorso. Se il titolo originale era una gemma breve e perfetta, essenziale, massimamente coerente tra meccaniche di gioco (gameplay) e narrazione, il sequel si fa più ampio e audace, e dalle scelte autoriali nascono quei dubbi e quelle riflessioni che alimentano il fuoco del dibattito artistico: mette in crisi le tipiche strutture videoludiche portandole all’estremo, unendo un realismo inedito a una dissezione clinica della violenza, che tuttavia non è mai pornografia del dolore o coreografia splatter. Incarnare Ellie, Joel e Abby è un po’ come leggere La Strada di Cormac McCarthy, ma entrando nella mente e nel corpo dei personaggi e provando tutta la pesantezza fisica ed emotiva del sopravvivere in un mondo post catastrofe, con un grado di immersione che solo un videogioco può proporre. La rivelazione di The Walking Dead qui diventa premessa: i mostri non sono gli zombie – o in questo caso gli infetti dal fungo cordyceps; i mostri siamo noi, che anziché costruire legami lottiamo per contenderci le poche risorse rimanenti. I ponti sono caduti ma in compenso si trovano armi in abbondanza, e la Seattle post apocalittica è popolata da poche vittime e tanti colpevoli. Nel percorso verso il completo riconoscimento artistico dei videogiochi, un passaggio cruciale sarà quello per affrancare il medium dalla mera idea di svago, di passatempo.

  

La polemica a cui accenna Richard K. Morgan parla di ciò: lasciate fuori i messaggi sociali e le tematiche morali dai videogiochi, sembrano dire alcuni, perché vogliamo che restino un giardino dove sfogarci e sparare impunemente. Invece, ormai sappiamo che le esperienze virtuali sono esistenzialmente significative: quando partiamo ci portiamo dietro qualcosa di noi, e quando torniamo indietro non siamo gli stessi di prima. Quello di The Last of Us 2 è un viaggio che spinge a sviluppare responsabilità per le proprie azioni virtuali. I proiettili non hanno mai pesato così tanto, e il sangue sulle mani di un personaggio fatto di pixel non è mai stato così difficile da lavare. Assodato che i mostri siamo noi, ora si tratta di esplorare questa mostruosità per capire cosa resta, se qualcosa resta, di noi e della nostra umanità.

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