Il peggio che resta di noi

Richard K. Morgan

Le reazioni al sequel di un celebre videogame mettono a fuoco un problema culturale contemporaneo: l’idea che un’opera d’arte debba fornire ciò che il suo pubblico le chiede

Sì, l’ho appena finito. O – più precisamente – l’ho finito un paio di giorni fa, e da allora me sono rimasto seduto con un dolore profondo nel petto e un calderone ribollente di domande, idee e problemi che hanno bisogno d’una boccata d’aria. Il che fa di The Last of Us 2 un trionfo grandioso in termini di videogioco, giusto? Ciò è indiscutibile, giusto? Poi guardo Da Internet e ............. Gesù F * Cristo. Il vetriolo. La rabbia. L’odio. Come Joel ed Ellie si sono chiesti tante volte nel corso del gioco originale, Cosa siamo diventati?

   

Ok, iniziamo dalla roba facile – là fuori c’è qualche sentore che la Gente è Incazzata perché Ellie è gay (immagino allora che quei tizi non abbiano giocato all’espansione del gioco precedente), un nobile e ammirevole personaggio non giocante è trans, e il cast in generale non è costituito interamente da, sai com’è, etero texani bianchi con stivali da cowboy, pistole e chitarre.

  

Voglio dire, questa Gente Incazzata – nella misura in cui esiste davvero e non si tratta solo di uno spaventapasseri imbastito alla bell’e meglio – può andare tranquillamente a farsi fottere. Il che include le “autorità competenti” (termine improprio se mai ne ho visto uno) dell’Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che a quanto pare hanno vietato il gioco. (Anche se – chiamatemi cinico – c’è da chiedersi se questo non abbia a che fare tanto col fatto che Dina è chiaramente ebrea quanto per l’intera prospettiva lgbt). Sì, quella gente può andarsene tutta a farsi fottere. Eppure… Non sono convinto che quelle persone rappresentino più d’una minuscola – seppure rumorosamente odiosa – minoranza delle persone che detestano davvero questo gioco. In primo luogo, se si trattava di lgbt e diversità nella rappresentazione, perché tutti questi tizi non si sono infuriati quando è uscito il primo gioco? Bill era gay, Ellie era gay, a nessuno sembrava fregargliene un cazzo. Sembra che qui la causa della maggior parte delle reazioni sconvolte non riguardi i personaggi in sé, ma la serie di scelte narrative che la Naughty Dog ha compiuto in quello che succede a quegli stessi personaggi. E su questo, a essere onesti, nutro un po’ di comprensione.

   

Gettiamo un po’ di basi. Abby (e per estensione la sua banda) uccide Joel in modo particolarmente orrendo. E’ Abby a compiere l’atto, ma gli altri sono quanto meno complici; in termini più onesti risultano pienamente partecipi. Così Ellie decide di vendicarsi. E noi si gioca nei panni di Ellie. La squadra di Abby cade, un membro dopo l’altro, ma Abby no. Viene a cercare Ellie con occhi iniettati di sangue. Resa dei conti. Finale in sospeso. Poi facciamo retromarcia e si gioca nei panni di Abby – evidentemente per un bel lasso di tempo.

 

Per un po’ ho pensato che si sarebbe trattato di un breve intermezzo (ce n’erano stati un paio altrettanto brevi con Abby in precedenza, prima dell’Evento Scatenante, come amano chiamarlo a Hollywood, della morte di Joel). Invece viene fuori che bisogna giocare per tutti i tre giorni precedenti, scoprendo cosa ha fatto Abby mentre Ellie (e quindi Tu) era impegnata a massacrare i suoi amici. La durata di questo segmenti è all’incirca uguale a quello della sezione di Ellie appena giocato, dopo di che si torna alla resa dei conti in sospeso e nei panni di Abby che combatte contro Ellie.

 

Abby sconfigge Ellie, ma (in un groviglio di complicazioni di personaggi non giocanti piuttosto ben fatto) le risparmia la vita e lascia andare.

 

A quel punto Ellie torna a casa e cerca di andare avanti con una vita che non preveda la caccia, gli agguati e la soppressione di umani e infetti. Si gioca nei panni di Ellie. Per un po’ sembra che questa possa essere la fine del gioco. Ma non è così, perché Ellie ha un brutto caso di stress post traumatico e senso di colpa da sopravvissuta, e alla fine deve affrontare i suoi demoni rintracciando Abby ancora una volta e resettare la vendetta.

 

A quel punto si gioca un altro po’ nei panni di Abby, finché si giunge a una serie di complicazioni che comprendono il suo imprigionamento per mano d’una nuova squadra di cattivi. Poi si torna a giocare nei panni di Ellie, che segue Abby fino alla base dei cattivi, li spazza via con relativa facilità, e trova Abby incatenata a un palo in attesa di morire. Ellie libera Abby, la costringe a combattere, la sconfigge (a un costo personale piuttosto sgradevole), e poi, all’ultimo momento, la lascia vivere. Abby scompare nella nebbia, Ellie torna a casa, ma casa è cambiata, non in meglio, ed Ellie esce di scena zoppicando con le magre consolazioni che riesce a scovare. Fine.

 

Mi piace questo tipo di narrazione. Mi piace che che i miei personaggi siano imperfetti e dalla dubbia tempra morale. Mi piace che la mia violenza abbia un costo elevato, e che il brivido del confronto brutale e della sopravvivenza sia controbilanciato dai danni umani collaterali che entrambi comportano. E se fossi arrivato a The Last of Us 2 senza aver giocato alla prima parte, credo che per me tutta questa storia di Abby/Ellie avrebbe funzionato meglio. E’ vero che si si parte dalla versione di Ellie, ma se quanto vediamo nel gioco è tutto quel che sappiamo, nell’ambientazione di Ellie non si ricava molto di più che in quella di Abby. Passare continuamente da una parte all’altra avrebbe incasinato un po’ le cose tuttavia c’è molto da apprezzare in quella di Abby se ci si lascia andare, assieme a uno sconcertante senso di vertigine esistenziale rendendosi conto che le persone che Ellie ha massacrato non sono, in realtà, il branco di cattivi che ti sarebbe piaciuto pensare, e che non ci andavano nemmeno lontanamente vicino.

 

Il problema, però, è che ho effettivamente giocato alla prima parte. E questo rende il mio legame con Ellie e Joel praticamente indissolubile. Quindi non importa davvero quanti sforzi gli scrittori abbiano profuso per farci immedesimare con Abby, o confondere le acque del rapporto tra Ellie e Joel – semplicemente non sarei mai stato in grado di cambiare fazione. Hanno ucciso Joel, cazzo! Non si torna indietro. Il che ha conferito al mio tempo giocando nei panni di Abby una sfumatura d’irritazione e impazienza, mentre correvo a concludere le sue sezioni di gioco, con la voglia di tornare da Ellie (ed è un peccato, perché alcune di quelle sezioni sono davvero incredibili – a un certo punto dovrò rigiocarci e concedergli il livello di immersione che meritano). E quando si trattava di combattere Ellie nella prospettiva di Abby, non ci stavo davvero, davvero mettendo il cuore.

 

E ciò costituisce un grosso passo indietro rispetto al primo gioco.

 

L’originale The Last of Us aveva le stesse incasinate questioni morali a incombere su come – immutabile per scelta di design e per Dna dello studio, andava a finire. Tuttavia in termini emotivi, quando alla fine arrivava, ogni briciola di quel finale era stata meritata. Potete non essere intellettualmente d’accordo con quello che fa Joel, ma col cuore siete pienamente con le sue decisioni. Avete compiuto lo stesso viaggio che ha fatto lui, i vostri sentimenti sono gli stessi vissuti da lui, e la sua scelta sembra completamente giusta ora che è nelle vostre mani. E’ uno degli elementi che allora resero il gioco un capolavoro all’avanguardia.

 

Detto questo… Cos’è tutto quest’odio, gente? The Last of Us 2 non è buono come The Last of Us. Non c’è da stupirsi, comunque sarebbe sempre stato un obiettivo assai alto da battere – e allora?

 

Non vi è piaciuto che Joel sia morto? Fatevene una ragione. A me non piacque che la moglie di James Bond fosse morta alla fine di Al Servizio di Sua Maestà, e infatti decisi di fingere che non fosse successo. Ma all’epoca avevo circa nove anni, quindi una qualche giustificazione. Se state giocando a questo gioco, dovreste essere degli adulti.

 

Non vi è piaciuto che Ellie lasci andare Abby? Fatevene una ragione. Non spetta a voi decidere cosa succede alle persone nelle opere di finzione che consumate. Questo è il contratto di base che stipuli con l’autore quando scegli di consumare una storia, indipendentemente dal mezzo espressivo. Si fa un bel giro, si vivono i paesaggi e le montagne russe che capitano lungo la strada. I fandom e la macchina del franchising ufficiale lavorano sodo e coi guanti bianchi per convincere le persone che queste in qualche modo possiedono (quantomeno in quote di partecipazione) queste storie e i personaggi – ma non è così. Non è così. Questo è quel che serve il convento. Fatevene una ragione.

 

Naturalmente non aiuta che l’intero medium del videogioco si basi sull’idea e l’ideale del controllo. Si controlla il personaggio in un videogioco, almeno entro i parametri consentiti dai progettatori. Potreste persino trovarvi autorizzati a prendere decisioni e scelte che in un modo o nell’altro alterano il risultato del gioco in modo significativo. E nei giochi open world, si può semplicemente saltare la narrazione e svolgere le proprie azioni. Tutto questo può portare all’impressione sbagliata che sia tu a comandare.

 

Ma in realtà non è così. Non importa quante recensioni al vetriolo pubblicate su Metacritic.

 

Per me, la (massiccia) reazione a questo gioco ha messo nuovamente a fuoco un fondamentale problema culturale di cui soffriamo, e che ha davvero bisogno di essere sommariamente affrontato: l’idea che un’opera d’arte debba fornire esattamente ciò che il suo pubblico le chiede – o affrontare l’ira dei consumatori. E’ uno dei princìpi fondamentali del capitalismo degli ultimi tempi: che il prodotto deve soddisfare il consumatore, che il cliente ha sempre ragione. E non fraintendetemi, queste possono essere dichiarazioni d’intenti onorevoli se siete un produttore di lavatrici o orologi, un fornitore di servizi in ambito bancario o legale. Ma è un’agenda che non si può applicare all’arte in modo fruttuoso.

 

E’ stato detto più volte, da numerosi luminari, che la grande arte tende a metterci a disagio, e quei tizi non si sbagliano; essa addirittura ci coglie alla sprovvista, ci sconvolge; ci conduce in luoghi dove non avevamo mai pensato di andare, e dove forse nemmeno volevamo recarci. Scavalca le nostre zone di conforto e ci porta a fare un bel giro. A volte si ama la scampagnata, a volte non così tanto. Ma è implicito nel contratto tra artista e pubblico che si accetti comunque il tragitto per poi farne quel che si vuole. Si legge il romanzo, si guarda il film, si fissa l’installazione o il dipinto sul muro. Magari impari qualcosa lungo la strada, su te stesso o il mondo o entrambi. Magari ti poni domande che altrimenti non avresti mai considerato; magari ti ci dedichi e senti qualcosa a un nuovo livello inaspettato. E di conseguenza magari si cresce un po’.

 

Questa questione della crescita è importante. I videogiochi sono cresciuti enormemente come forma d’arte nei diciotto anni in cui ci ho giocato, e la dozzina circa in cui ho scritto, dentro e fuori, per il formato. Sempre di più, noto nei giochi migliori elementi che non risulterebbero sbagliati in letteratura, al cinema o semplicemente appesi alla parete d’una galleria d’arte. Quindici anni fa, ho dichiarato che Max Payne si avvicinava al livello di un buon romanzo pulp; poco dopo ho trovato in The Sufferings qualcosa che ricordava alcuni dei migliori sforzi letterari di Stephen King. Da allora, l’incidenza di contenuti artistici maturi nei giochi si è intensificata col mero passare degli anni. The Last of Us è stato una pietra miliare su quella curva ascendente. E non fraintendetemi, proprio come The Last of Us 2.

 

Ma un contenuto artistico maturo richiede un pubblico maturo, capace di confrontarsi con esso. E sfortunatamente la nostra attuale matrice culturale pare decisa a generare l’esatto contrario. Stiamo diventando, per dirla con scarsa eleganza, un branco di ragazzini viziati fin nel midollo, da non mettere in discussione o allontanare mai dalla loro zona di conforto, pena vederci fare le bizze. Un branco che esige la soddisfazione di ogni capriccio, in ogni momento, e che dà di matto quando ciò gli viene negato. Peggio ancora, il nostro intrattenimento è sempre più prodotto e confezionato per soddisfare questi stessi capricci, per sedare la rabbia e massimizzare l’assorbimento da parte dei consumatori a qualsiasi costo. I franchise dominano il panorama; il fandom è drogato a credere di essere il padrone della situazione. E’ una macchina ben oliata, fa un sacco di soldi e manda via la gente felice, o che almeno pensa di esserlo. A volte, lungo la strada, produce persino arte decente. Ma la maggior parte di ciò che fa è solo un prodotto, ed è colpa nostra.

 

Se vogliamo che il medium del videogioco sia all’altezza di altri media come la letteratura e il cinema, se vogliamo che produca opere d’arte autentiche e al tempo stesso prodotti superficialmente piacevoli, allora dovremo fare spazio al disagio, al tuffo in profondità e alla punta affilata, non solo nelle dinamiche di gioco ma anche nei contenuti emotivi. Dovremo accettare che un gioco potrebbe non piacerci emotivamente in ogni singolo istante, che potrebbe non darci esattamente ciò che volevamo dai suoi personaggi e che potremmo non essere d’accordo con le sue scelte narrative. Nessun autentico lettore di narrativa si rifiuta di apprezzare un romanzo perché in esso accadono cose che non gli piacciono. Nessun cinefilo serio si aspetta che in ogni film ci siano protagonisti completamente simpatici che si comportino in sintonia morale coi pregiudizi etici dello spettatore. Nessun vero amante dell’arte si aspetta di rimanere per sempre nella sua zona di conforto.

 

C’è, naturalmente, un dibattito da affrontare su quanto sia stata efficace tale spinta fuori dalle zone di conforto, su quanto l’opera d’arte raggiunga efficacemente i suoi fini espliciti; tutta una parte del proprio coinvolgimento con l’arte sta proprio in tale dibattito, in quella critica. Se avete giocato a The Last of Us 2 e avete avuto qualche problema al riguardo- benvenuti nel club. Prendete una sedia accanto a noi e articolate.

 

Ma se avete giocato a The Last of Us 2 e poi vi siete precipitati a farneticare e infuriarvi sulle piattaforme parlando di tradimento, a bombardare Metacritic con recensioni al vetriolo, allora vi sta davvero sfuggendo il senso di quello che stiamo facendo qui, tutti noi.

(traduzione di Edoardo Rialti)

 

Richard K. Morgan è autore della trilogia “Altered Carbon” (Tea).

La sua trilogia dark fantasy “A Land Fit for Heroes”, sarà pubblicata da Mondadori nel 2021, a cura di E. Rialti

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