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Cuore di lava

Gaia Manzini

L’Etna, il Vesuvio, il Paektu. Giganti fatti di pietra e di fuoco. Dentro il vulcano si nasconde la fragilità umana e la sua bellezza

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Per arrivare dalla città di Tupiza, nel sud della Bolivia, fino al Salar di Uyuni, il deserto di sale più esteso del mondo a tremila metri di altezza, bisogna attraversare la riserva nazionale di fauna andina Eduardo Avaroa. Non si può andare da soli, non ci sono autobus di linea, così il mio compagno di viaggio e io ci siamo uniti a un gruppo di ragazze di Bologna. Ci abbiamo messo tre giorni: tre giorni di viaggio in jeep, di soste a quattromila metri nei pressi di lagune rosse ricoperte di fenicotteri; di bagni nelle acque riscaldate dalle emissioni dei gayser; di serate trascorse in villaggi sperduti dove il maestro elementare arriva in fuoristrada una volta la mese e, se c’è un campo da basket, puoi scommetterci che il canestro ha la rete consumata e l’anello arrugginito (tanto chissenefrega: a quell’altezza è faticoso anche solo camminare per mezz’ora). In una di quelle sere Francisco, la nostra guida, ci ha raccontato una storia. Il giorno dopo era prevista una visita alla Laguna Verde, il lago salato a 4.300 metri, ai piedi del vulcano Licancabur. L’anno precedente la nostra guida aveva accompagnato due alpinisti bergamaschi che prima di attaccare il vulcano si erano rifiutati di fare la loro offerta rituale alla Madre Terra, la Pachamama. I due alpinisti e la guida erano saliti fino alla caldera senza grandi difficoltà, l’intenzione era quella di scattare una serie di fotografie. A quasi seimila metri di altezza, però, il vento soffia talmente forte che è quasi impossibile comunicare se non a gesti. Il tempo stava cambiando e la guida aveva fatto segno di andare: bisognava scendere e raggiungere celermente il campo base. Il secondo alpinista non aveva capito i segni della guida e si era trattenuto in cima per gli ultimi scatti. Quando si era accorto che con lui non c’era più nessuno e che la perfetta circolarità del vulcano non consentiva di prendere punti di riferimento, era ormai troppo tardi. Ci erano volute sessanta ore per ritrovarlo miracolosamente vivo, ha raccontato la guida.

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Per arrivare dalla città di Tupiza, nel sud della Bolivia, fino al Salar di Uyuni, il deserto di sale più esteso del mondo a tremila metri di altezza, bisogna attraversare la riserva nazionale di fauna andina Eduardo Avaroa. Non si può andare da soli, non ci sono autobus di linea, così il mio compagno di viaggio e io ci siamo uniti a un gruppo di ragazze di Bologna. Ci abbiamo messo tre giorni: tre giorni di viaggio in jeep, di soste a quattromila metri nei pressi di lagune rosse ricoperte di fenicotteri; di bagni nelle acque riscaldate dalle emissioni dei gayser; di serate trascorse in villaggi sperduti dove il maestro elementare arriva in fuoristrada una volta la mese e, se c’è un campo da basket, puoi scommetterci che il canestro ha la rete consumata e l’anello arrugginito (tanto chissenefrega: a quell’altezza è faticoso anche solo camminare per mezz’ora). In una di quelle sere Francisco, la nostra guida, ci ha raccontato una storia. Il giorno dopo era prevista una visita alla Laguna Verde, il lago salato a 4.300 metri, ai piedi del vulcano Licancabur. L’anno precedente la nostra guida aveva accompagnato due alpinisti bergamaschi che prima di attaccare il vulcano si erano rifiutati di fare la loro offerta rituale alla Madre Terra, la Pachamama. I due alpinisti e la guida erano saliti fino alla caldera senza grandi difficoltà, l’intenzione era quella di scattare una serie di fotografie. A quasi seimila metri di altezza, però, il vento soffia talmente forte che è quasi impossibile comunicare se non a gesti. Il tempo stava cambiando e la guida aveva fatto segno di andare: bisognava scendere e raggiungere celermente il campo base. Il secondo alpinista non aveva capito i segni della guida e si era trattenuto in cima per gli ultimi scatti. Quando si era accorto che con lui non c’era più nessuno e che la perfetta circolarità del vulcano non consentiva di prendere punti di riferimento, era ormai troppo tardi. Ci erano volute sessanta ore per ritrovarlo miracolosamente vivo, ha raccontato la guida.

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I vulcani sono fatti di parole e narrazioni. Vivono dentro l’eco delle leggende che sono capaci di evocare e di cui non sappiamo fare a meno


     

Il giorno seguente, davanti al lago color giada, non facevamo altro che fissare silenziosi il verde dell’acqua: di quel colore per colpa dell’arsenico (anche se poi la vera causa è il rame, in quel momento non avremmo mai messo in dubbio le parole della nostra guida). Non facevamo altro che sbirciare il cono vulcanico alla nostra sinistra, una montagna nera e nuda che avrebbe potuto punirci come trasmetterci energia, a seconda dei suoi sbalzi d’umore. Siamo rimasti in contemplazione meno di dieci minuti. Anche se si trattava di un paesaggio unico, avevamo solo voglia di andarcene. Segno che i vulcani sono reali, ma fino a un certo punto. Sono giganti fatti di pietra e di fuoco, ma sono anche molto di più: sono fatti di parole e narrazioni. Vivono dentro l’eco delle leggende e delle storie che sono capaci di evocare e di cui non sappiamo fare a meno, spaventati come siamo – e allo stesso tempo attratti – dalla loro forza distruttiva, dall’energia primordiale che sanno trasmettere.

   

Sabrina Mugnos è una vulcanologa e ha firmato per Il Saggiatore un’avventura tra i vulcani italiani intitolata Draghi sepolti. “Non si commetta mai l’errore di darli per scontati, però, perché per quanto la scienza potrà mai conoscere di loro, rimarranno sempre uno tra i fenomeni naturali più imprevedibili del pianeta. Seguire le loro tracce significa percorrere un sentiero d’amore, scottante come solo le emozioni più intense, capace di dialogare col nostro essere più intimo.” Sì, è l’amore che spinge a conviverci con ostinazione e impudenza. L’Etna (3.320 metri, 5 crateri di cui il principale di 500 metri di diametro), dal greco Aiteos, è stato poi Gibal e Gibel – in arabo, monte: da cui il Mongibello – ma popolarmente è Idda: essa, la muntagna. Un essere vivente dai mille volti, amato incondizionatamente; una lei: una madre, un’amante, un’amica, una moglie, ma sempre e comunque una femmina volubile che ha instaurato con le sue genti un rapporto viscerale. Mugnos ne ripercorre la storia eruttiva e il fascino mitologico, compresi i faraglioni davanti ad Aci Trezza individuati come isole dei Ciclopi: cioè i massi che Polifemo scagliò nel mare dopo essere stato accecato da Ulisse. E’ amore quello di chi vive, lavora, vinifica sull’Etna: il vulcano che nel 1981 ha emesso tra i 20 e i 30 milioni cubi di lava, una delle eruzioni più imponenti e distruttive del ventesimo secolo.

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Leopardi, ospite di villa Ferrigni a Torre del Greco, per fuggire dal colera, guardava il Vesuvio sterminatore e scriveva La Ginestra


     

Amore, amore e ancora amore. L’artista Geri Palamara ha voluto unire in matrimonio i due faraglioni vulcanici di Lipari. L’anno scorso è stato festeggiato il ventennale di quell’unione, con una lunga processione di barche guidata dallo storico veliero Sigismondo. E ancora, Werner Herzog nel suo documentario dedicato ai vulcani (Into the Inferno) ha ricordato una coppia di studiosi: Maurice e Katia Krafft. Erano alsaziani e innamorati. Inseguivano ogni eruzione in giro per il mondo ed erano sempre i primi ad arrivare. Ci sono immagini incredibili delle loro avventure: piccole figure avvolte da tute ignifughe che si stagliano sullo sfondo di una gigantesca lingua di fuoco; oppure che si siedono e guardano, e poi camminano sul ciglio del fuoco: come se non fosse nulla, come se si trattasse di una tenda di velluto rosso. Erano i vulcanologi più veloci del mondo, Maurice e Katia, riuscivano a scappare appena l’eruzione si faceva troppo potente. Li chiamavano “i diavoli dei vulcani”. Nella loro vita hanno assistito a centoquaranta fenomeni eruttivi. Poi un giorno in Giappone, sull’isola di Kyushu, una colata dal monte Unzen li ha sorpresi e di loro non si è saputo più nulla.

   

Il Console Firmin di Sotto il vulcano, capolavoro di Malcolm Lowry (1938), conta i bicchieri di ogni alcolico che abbia mai bevuto. Ama l’ex moglie Yvonne, ma ama forse di più la sua disperazione, il personale inferno che conosce così bene e a cui si affretta a tornare appena può. Sta lì nel caldo senza scampo del Messico mentre le vette dei due vulcani, Popocatépetl e Iztaccíhuatl, lo osservano cupe. “Il Popocatepetl torreggiava inquadrato dalla finestra, coi fianchi mostruosi parzialmente nascosti dalle nuvole temporalesche; con la vetta che sbarrava il cielo, sembrava levarsi direttamente sopra il suo capo (…) sotto il Vulcano! Non a caso gli antichi avevano posto il tartaro sotto il monte Etna e nelle sue viscere il mostro Tifeo dalle cento teste”. Il vulcano è il pericolo, è la precarietà. E’ un elemento della coscienza: sta incastrato nella testa e in mezzo al petto. E’ lì dentro che si prepara la vera eruzione per Firmin”.

   

Jules Verne invece parte dall’Islanda. E’ nel cono dello Sneffels che i protagonisti del suo romanzo si calano per raggiungere il centro della terra. Il vulcano è un labirinto verticale, è un percorso di conoscenza. Ma l’Islanda è tutta vulcanica, non passa stagione che non ci sia un’eruzione. Nel 2010 dopo l’eruzione dell’Eyjafjöll, un’immensa nube di cenere ha invaso i cieli d’Europa, bloccando tutti i trasporti aerei per otto giorni. Eppure gli islandesi ci sono abituati, tutta la loro tradizione poetica è influenzata dalla lava. “La terra sprofonda nel mare/ Il sole si oscura / Dal cielo cadono le stelle lucenti / Erompono il vapore e il fuoco distruttore /Alta la vampa si leva nel cielo / Da lontano scorgo il tremendo destino degli dei / E viene dalle tenebre il drago Nidok… / Sorvolando la piana porta i morti tra le sue ali / e ora si inabissa”. E’ l’inizio del Codex Regius, il manoscritto medievale che gli islandesi avevano donato a Federico III di Danimarca, poi restituito all’Islanda nel 1985. Inizia da una visione apocalittica, dall’evocazione di un vulcano in attività. Il vulcano che è morte e fine, ma resta sempre comunque vita. Dopo due mesi di viaggio al centro della terra, Otto Lidenbrock e i suoi ritorneranno in superficie, uscendo ai piedi del vulcano Stromboli che, ci ricorda Mugnos, è in una terra di grandi passioni. Anche cinematografiche.

      


Amore, amore e ancora amore. L’artista Geri Palamara ha voluto unire in matrimonio i due faraglioni vulcanici di Lipari


       

Il 7 maggio 1948 Ingrid Bergman scrisse una lettera di stima a Roberto Rossellini, come augurio per il suo compleanno. L’anno successivo erano sull’isola a girare Stromboli, terra di Dio: erano innamorati, e lui aveva dimenticato la relazione con Anna Magnani. Peccato che negli stessi mesi Anna avesse architettato una vendetta cinematografica. Mentre i due amanti lavoravano sull’isola di Stromboli, lei su quella di Vulcano recitava nel film omonimo diretto da William Dieterle. Da una parte Anna Magnani che interpreta una prostituta di lungo corso rispedita dalle autorità sull’isola, dall’altra Ingrid Bergman nel ruolo di una profuga lituana, ora moglie di Antonio, che cerca di adattarsi alle enormi divergenze culturali con la gente del posto. Due set paralleli, decine e decine di cronisti arrivati all’Eolie per svelarne i retroscena. Vulcano vs Stromboli: è stata una guerra per amore, poco importa che entrambi i film furono due flop. Da allora le isole tornarono di moda, il mondo si ricordò della loro esistenza e ricominciò a innamorarsi di quel mare.

    

Ci racconta Mugnos della Sciara del fuoco, palcoscenico del vulcano di Stromboli, lo spettacolo pirotecnico con il quale al calar del sole ci incanta da lontano e da vicino. I pescatori capiscono la natura dei venti dalla direzione dei gas emessi dal vulcano; gli scalatori, lassù in cima, si sentono stretti al centro dei quattro elementi. Mugnos ci racconta di Vulcano, delle scritte d’amore e tifo calcistico che sono state incise dai turisti nella fanghiglia del cratere; della pomice e dell’ossidiana di Lipari; della riolite di Panarea, ma anche del cargo inglese Llanishen affondato nel 1885 fino a quaranta metri di profondità. Dei Campi Flegrei e del Vesuvio, di Pompei ed Ercolano, di Benedetto Croce e della tragica scomparsa di tutti i suoi famigliari nel 1883. Ma anche dei laghi di Bracciano, Bolsena, Vico e Martignano, tondi rotondi, che un tempo erano vulcani e ora non lo sono più. Anche se poi c’è pure il vulcano che non c’è.

   


   L’Islanda è tutta vulcanica, ma gli islandesi ci sono abituati, tutta la loro tradizione poetica è influenzata dalla lava


     

A centocinquanta chilometri dalle coste della Sicilia e a centoquaranta dalla Calabria, in mare aperto, galleggiando sopra cinquecento metri di acqua si sta in cima al vulcano più alto di tutta Europa. Si chiama Marsili, è lungo settanta chilometri e largo trenta, copre un’area di duemila chilometri quadrati, è grande sei volte l’Etna. Le ultime eruzioni sono avvenuta tremila anni fa. Eppure tutti parlano di una bomba a orologeria, qualcosa che potrebbe far saltare in aria le coste calabresi e siciliane. Il nostro immaginario ha sempre bisogno di minacce nascoste, di senso di precarietà. Abbiamo bisogno di sentire il nostro battito cardiaco, qualcosa che ci dica la bellezza della vita: proprio perché breve, proprio perché fragile.

  

Nel già citato documentario, Herzog ci racconta che tutta la storia nordcoreana ruota intorno al vulcano Paektu. La leggenda vuole che la nazione sia nata qui cinquemila anni fa. Kim Il Sung, presidente fino al 1994, ha combattuto quassù la battaglia decisiva contro i giapponesi; così, lungo gli anni della sua leadership, si è appropriato del mito del vulcano. Per dare energia alla rivoluzione, ha portato il suo quartier generale militare segreto nella foresta ai piedi della montagna. Si tratta di un capanno dove milioni di persone vanno in pellegrinaggio, come se fosse una Betlemme orientale. Per i nordcoreani il padre fondatore della nazione vive ancora lì: sarà presidente per l’eternità. E’ una propaganda quasi religiosa che il vulcano avvalora nella sua dimensione spirituale.

   

Giacomo Leopardi, ospite di villa Ferrigni a Torre del Greco, per fuggire dal colera, guardava il Vesuvio sterminatore e scriveva La Ginestra. In quel cono, al tempo desertico, c’era tutta la ferocia della natura, tutta la forza che l’uomo sa contrastare con l’umiltà della sua resistenza, proprio come la ginestra. Tra i cunicoli di tufo giallo che si estendono sotto Napoli invece (per l’esattezza a venti metri sotto piazzetta Augusteo), racconta Mugnos, c’è una scritta che rammenta l’attività della signorina Filomena durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Nonostante la guerra, la prostituta riceveva in un’alcova sotterranea arredata: le pareti sono ancora ingombre di parole incise, parole d’amore e gratitudine. L’amore, ancora l’amore. I vulcani sono inevitabili per chi ci vive, ma anche per chi li immagina solamente. Sono una dimensione del mito e dello spirito. Il vulcano è oggetto poetico, di cui non possiamo fare a meno. Dentro di lui si nasconde il mistero della fragilità umana con tutta la sua bellezza.

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