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Enigmi, forme e colori nella miscela estetica e intellettuale di Jason Fulford

Luca Fiore

L'ultimo libro del fotografo ed editore newyorchese è una sfida della conoscenza

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Oltre a essere uno dei compositori di musica “sperimentale” più importanti del Novecento, John Cage era appassionato di micologia. Sapeva tutto sui funghi. Anche se – sosteneva – “è inutile far finta di conoscerli. Sfuggono alla nostra erudizione. Più ne sai, meno sei sicuro di poterli identificare”. E’ una citazione, questa, cara a Jason Fulford, fotografo ed editore newyorchese (classe 1973), diventato nell’ultimo decennio un personaggio quasi leggendario per il suo modo spiazzante di pensare e realizzare libri di fotografia. Anni fa, all’indomani della pubblicazione del suo libro più famoso, The Mushroom Collector, in un’intervista che finì sulla copertina di Aperture, la più importante rivista di fotografia, spiegava la relazione tra il suo modo di trattare le immagini e l’attività di chi raccoglie i funghi: “È come essere uno spazzino che vaga. Si entra nel bosco con la mente aperta. Si può trovare con questo o quel fungo, oppure si torna casa con nient’altro che un pacchetto di sigarette vuoto”. Si passano anni a raccogliere e collezionare oggetti. E Fulford, che raccoglie e colleziona immagini, ha la preoccupazione di riassemblarle a posteriori, in modo che rivelino un significato non preventivato. “La fotografia ha la stessa chiarezza che ha il linguaggio. Una parola è precisa, ma il suo significato può cambiare in base alle parole che la circondano: think tank, tank top. Quando una persona guarda una fotografia che hai scattato, penserà sempre a se stessa, alla propria esperienza. Metterà in relazione la tua fotografia con i suoi ricordi. Quell’interazione è il punto in cui l’immagine diventa viva e cresce. È diverso per ogni spettatore. I miei ‘enigmi fotografici’ non hanno soluzioni definitive. Credo che funzionino più come inviti”.

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Oltre a essere uno dei compositori di musica “sperimentale” più importanti del Novecento, John Cage era appassionato di micologia. Sapeva tutto sui funghi. Anche se – sosteneva – “è inutile far finta di conoscerli. Sfuggono alla nostra erudizione. Più ne sai, meno sei sicuro di poterli identificare”. E’ una citazione, questa, cara a Jason Fulford, fotografo ed editore newyorchese (classe 1973), diventato nell’ultimo decennio un personaggio quasi leggendario per il suo modo spiazzante di pensare e realizzare libri di fotografia. Anni fa, all’indomani della pubblicazione del suo libro più famoso, The Mushroom Collector, in un’intervista che finì sulla copertina di Aperture, la più importante rivista di fotografia, spiegava la relazione tra il suo modo di trattare le immagini e l’attività di chi raccoglie i funghi: “È come essere uno spazzino che vaga. Si entra nel bosco con la mente aperta. Si può trovare con questo o quel fungo, oppure si torna casa con nient’altro che un pacchetto di sigarette vuoto”. Si passano anni a raccogliere e collezionare oggetti. E Fulford, che raccoglie e colleziona immagini, ha la preoccupazione di riassemblarle a posteriori, in modo che rivelino un significato non preventivato. “La fotografia ha la stessa chiarezza che ha il linguaggio. Una parola è precisa, ma il suo significato può cambiare in base alle parole che la circondano: think tank, tank top. Quando una persona guarda una fotografia che hai scattato, penserà sempre a se stessa, alla propria esperienza. Metterà in relazione la tua fotografia con i suoi ricordi. Quell’interazione è il punto in cui l’immagine diventa viva e cresce. È diverso per ogni spettatore. I miei ‘enigmi fotografici’ non hanno soluzioni definitive. Credo che funzionino più come inviti”.

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L’ultimo libro di Fulford, Picture summer on Kodak film (Mack, 2020), è un altro di questi “enigmi” (che in inglese si traduce “puzzle”, parola che in italiano, forse, riesce a rendere meglio l’idea di incastro tra immagini). Un gioco colto, che produce nell’osservatore uno strano piacere, frutto di una miscela estetica e intellettuale. Non è un caso che, sulla quarta di copertina del libro, sia riportata la frase latina “Et quid amabo nisi quod aenigma est?” (Che cosa dovrei amare se non l’enigma?), la stessa che Giorgio De Chirico mise sulla cornice del suo primo autoritratto del 1911.

    

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Il libro si apre con la sequenza di tre immagini: il disegno di un prisma che rifrange un fascio di luce, l’insegna “Signs” (segni) che si moltiplica per tre volte perché fotografata attraverso un prisma e, infine, la mano di un uomo che stringe quattro accendini di colori diversi, quasi fossero raggi di rifrazione che escono da un prisma. Il libro procede, pagina dopo pagina, proponendo immagini di oggetti, interni di case, scorci di strade, nelle quali è riconoscibile un legame con idee o forme ricorrenti (la luce, l’ombra, il passare del tempo, linee oblique, motivi geometrici, colori pastello).

    

Fulford usa le tradizionali tecniche del linguaggio fotografico (geometrie, contrasti, accostamenti di colori) che di solito vengono messe al servizio di una narrazione, non come sussidiarie a un discorso narrativo, ma come contenuto stesso del discorso. Sta a chi guarda riconoscere questi elementi in ciascuna immagine e notare le corrispondenze con quelle viste prima e dopo. Non potremo ricostruire una “storia”. Ma al secondo, terzo, quarto sfoglio, ognuno ricomporrà a suo modo il “puzzle”, accorgendosi che, in ogni caso, l’enigma resterà intatto. Certo, occorre essere disposti a giocare questo tipo di partita. Occorre un certo tipo di assetto mentale. Spiegava Fulford ad Apeture: “Di recente ho visto un parco divertimenti lungo una strada nel nord della California, sul cancello c’era un cartello che diceva: ‘Se vieni qui per divertirti, ci riuscirai. Altrimenti non ti divertirai’”. È una sfida della conoscenza. Interpretata con un’ironia e una leggerezza che a chi è distratto può apparire superficialità. Non è un caso che a metà del libro Fulford proponga una foto scattata in Messico, all’interno di una casa progettata dal grande architetto Luis Barragán: un fascio di luce si posa, a 45 gradi, sopra un’opera di Josef Albers. E’ uno dei celebri “Omaggio al quadrato”, esempio di come la riflessione sul rapporto formale tra colore e geometria possa assumere una dimensione spirituale.

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