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Arte a Venezia

Giuseppe Fantasia

Da Cartier-Bresson a Latrigue, non solo la grande fotografia del Novecento. La Laguna si riprende i suoi spazi e li trasforma in luoghi di riflessione

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Perché una cosa sia interessante, scrisse Gustave Flaubert, è sufficiente guardarla a lungo”, ma nel caso delle fotografie di Henri Cartier-Bresson – fa notare invece Javier Cercas – accade l’esatto contrario: “Basta guardarle una volta per trovarle interessanti”. Tuttavia, anche se le osserviamo a lungo – precisa lo scrittore spagnolo che con i suoi libri (l’ultimo è un thriller, Terra Alta, appena uscito per Guanda) è riuscito a incarnare un’audace esplorazione delle linee che separano la realtà dalla finzione – è possibile che alcune non comunichino appieno il loro significato, come se fossero state create per dire qualcosa di diverso ogni volta che vi posiamo lo sguardo o come se ciò che vogliono dire non venisse mai svelato del tutto. Cercas, assieme al collezionista François Pinault, alla fotografa Annie Leibovitz, al regista Wim Wenders e alla conservatrice Sylvie Aubenas, è uno dei magnifici cinque che ha curato “Henri Cartier Bresson. Le Grand Jeu” a Palazzo Grassi, la mostra con cui Venezia reagisce e riparte dopo varie disavventure, lockdown compreso.

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Perché una cosa sia interessante, scrisse Gustave Flaubert, è sufficiente guardarla a lungo”, ma nel caso delle fotografie di Henri Cartier-Bresson – fa notare invece Javier Cercas – accade l’esatto contrario: “Basta guardarle una volta per trovarle interessanti”. Tuttavia, anche se le osserviamo a lungo – precisa lo scrittore spagnolo che con i suoi libri (l’ultimo è un thriller, Terra Alta, appena uscito per Guanda) è riuscito a incarnare un’audace esplorazione delle linee che separano la realtà dalla finzione – è possibile che alcune non comunichino appieno il loro significato, come se fossero state create per dire qualcosa di diverso ogni volta che vi posiamo lo sguardo o come se ciò che vogliono dire non venisse mai svelato del tutto. Cercas, assieme al collezionista François Pinault, alla fotografa Annie Leibovitz, al regista Wim Wenders e alla conservatrice Sylvie Aubenas, è uno dei magnifici cinque che ha curato “Henri Cartier Bresson. Le Grand Jeu” a Palazzo Grassi, la mostra con cui Venezia reagisce e riparte dopo varie disavventure, lockdown compreso.

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“Henri Cartier Bresson. Le Grand Jeu” a Palazzo Grassi, la mostra con cui Venezia reagisce e riparte dopo varie disavventure


 

Tutti loro sono stati invitati dal curatore generale Matthieu Humery ad analizzare quella che era la Master Collection del fotografo francese, ovvero le 385 immagini che nel 1973 Cartier-Bresson scelse e considerò migliori tra le sue stampe a contatto dopo un confronto con una coppia di amici di vecchia data, Dominique e John de Menil, eredi della compagnia petrolifera Schlumberger e sostenitori della Magnum, l’agenzia da lui fondata, come noto, con Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert. Le jeu, cioè “il gioco” del titolo richiama il tema della casualità tanto caro ai surrealisti e allo stesso Cartier-Bresson che ne fu influenzato nelle sue immagini, alcune delle quali – come quelle presenti nella mostra veneziana visitabile fino al 20 marzo del 2021 – sembrano essere uscite direttamente da un sogno o da un incubo. Guardandole con attenzione, domina un’accentuazione onirica del reale come un essenziale che non sembra mai trovarsi all’interno della foto stessa, ma al di fuori. Il gioco è poi anche quello fatto dall’artista, “ma jeu – spiega al Foglio Bruno Racine, neodirettore di Palazzo Grassi/Punta della Dogana, già presidente del Centre Pompidou, della Bibliothèque Nationale e dell’Accademia di Francia a Roma (fu lui ad aprire Villa Medici all’arte contemporanea) – si avvicina a je, che significa ‘io’. Un grand jeu, dunque, che è celebrato attraverso l’omaggio all’opera di un unico artista e, simultaneamente, attraverso l’io di ogni curatore che emerge nella scelta delle immagini”.

   


   Henri Cartier-Bresson Lac Sevan, Arménie, URSS, 1972, 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos 

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In questo gioco a suo modo speciale, ognuno dei cinque curatori è stato invitato a selezionare una cinquantina di immagini dell’artista operando la propria selezione in totale libertà senza conoscere quella degli altri per raccontarne la storia e le sensazioni provate. “Una libertà”, ha aggiunto Racine, “che ha fatto sì che nessuno di noi avesse idea sulla direzione in cui sarebbero andate le loro scelte”. Quasi sempre, quelle selezioni non obbediscono a criteri estetici, storici o biografici, ma alla potenza visiva di quelle foto e all’impatto che hanno avuto su ognuno di loro. Ammirerete così le opere di colui che è stato soprannominato “l’Occhio del Secolo” sotto un’altra luce, un prisma unico con doppioni qua e là (una stessa foto è stata scelta da più di uno dei curatori) che riflettono sfaccettature ulteriori della sensibilità universale della sua opera. Ci sono paesaggi di città e di campagna, iconiche vedute di Parigi come quella dello Square du Vert Galant e del pont Neuf, a l’Île de la Cité, ma soprattutto uomini e donne, celebri e non, definiti dai loro sguardi. Cartier-Bresson (Chanteloup 1908-Montjustin 2004) amava concentrarsi sugli occhi e riusciva a farlo alzando la sua Leica davanti ai propri non per coprirli, ma per dire che quelli del fotografo e quelli dei suoi soggetti si possono incontrare e dire la stessa cosa cercando una complicità. Alcuni di quegli uomini e di quelle donne sono stati tra i preferiti di Wim Wenders, curatore d’eccezione della parte più interessante e scenografica della mostra, in cui si nota il tratto della sua poetica caotica unita alla sorpresa più pura. Vi si entra spostando una tenda e si è accolti dal buio che non è mai assoluto, ma accompagnato da bagliori di luce sottili che vanno ad amplificare la bellezza delle foto scelte. In una teca c’è una finta Leica che Saul Steinbberg regalò al fotografo, come a dire che era talmente bravo che poteva far emozionare e regalare emozioni anche usando quella che era una scatola. Di fronte c’è il suo ritratto del 1942, quando fu prigioniero di guerra in Germania, e a seguire c’è Colette che ha alle spalle Pauline Vérine, la sua governante di una vita che è come se badasse a lei. Con il suo sguardo, Samuel Beckett mostra un’introspezione, mentre Francis Bacon è intimo e provocatorio; Truman Capote, giovanissimo, dà un’immagine moderna, Jean Paul Sartre è al Pont des Arts con gli occhiali e in mano ha la sua pipa e Jean Renoir è il visionario del cinema ironico e saggio per cui Cartier-Bresson fu assistente alla regia di “La regola del gioco”, interpretando anche un ruolo secondario come cameriere del castello. “Vedere le sue foto mi ha fatto venire voglia di diventare fotografa”, ha dichiarato Annie Leibovitz e a ben vedere i suoi lavori, pieni di verità, semplicità e umiltà, non si può non darle ragione. “Tu sei libero”, diceva HCB, “noi siamo uguali e la fotografia è un’azione immediata, uno strumento perfetto per diffondere questo messaggio”, che ritroviamo anche in un’altra ala del palazzo dedicata a “Once upon a dream”, la prima retrospettiva dell’artista egiziano Youssef Nabil, un racconto di iniziazione tra fantasia e realtà dove ciascuna tematica affrontata ha una valenza universale e individuale, un’opera libera che lega il suo progetto a ogni orizzonte possibile, anche a un colloquio con André Aciman, autore del bestseller “Chiamami col tuo nome” e di molti altri.

   


     

Jacques Henri Lartigue, Mains de Florette, 1961 ©Ministère de la Culture (France), MAP-AAJH


  

Tempo di un caffè con Arrigo Cipriani, patron del mitico Harry’s Bar, 88 anni e 30 flessioni ogni mattina per tenersi in forma (“al diavolo la paura”, dice, “ricominciamo a vivere!”) e poi dritti a Punta della Dogana per “Untitled 2020. Tre sguardi sull’arte di oggi”, una collettiva ideata e curata da Caroline Bourgeois, Muna El Fituri e Thomas Houseago che inizia con la scritta Standing su un cartello, un invito stare in piedi cercando di mantenere una rettitudine nelle 18 stanze in cui è ambientata con oltre 60 artisti, autori di opere che sono un invito a riappropriarsi del modo di vedere e di pensare. Appena entrati c’è Beautiful Boy, la statua creata da Thomas Houseago con fil di ferro; poco distante ci sono il letto almodovariano di Teresa Burga e i disegni erotici di David Hockney col compagno Ian. Tutti vorrebbero poter bere qualcosa nel mitico bar Roxys creato negli anni Sessanta, tra non poche polemiche, da Edward Kienholz che è qui riprodotto o lasciarsi avvolgere dalla Pink Courtain di Mike Kelley. Ma l’emozione più grande l’abbiamo provata in un altro posto, alla Casa dei Tre Oci, alla Giudecca (fermata Zitelle), perdendoci nelle foto in bianco e nero di Jacques Henri Lartigue (1894-1986), protagoniste di una mostra organizzata da Civita Tre Venezie e visitabile fino al 10 gennaio del 2021.

   


Il fotografo della Belle époque riuscì a raccontare la vita di una classe sociale agiata nonostante gli orrori delle guerre mondiali


   

“L’invenzione della felicità” è il titolo scelto dai suoi tre curatori, Marion Perceval, Charles-Antoine Revol e Denis Curti, quest’ultimo nostra guida d’eccezione con Michele Bugliesi, presidente della Fondazione di Venezia che l’ha promossa con la Donation Jacques Henri Lartigue di Parigi. Trovarsi davanti a un lavoro di Lartigue, scrive Curti nel catalogo Marsilio e ce lo conferma anche a voce, “significa prendere atto di una fotografia che trova la propria ragion d’essere nella meraviglia per ciò che lo circonda”. La macchina fotografica, ricevuta in regalo quando aveva sette anni, gli diede concretezza nel suo gioco di immaginare e la fotografia, “l’arte del transitorio”, come la definirà poi crescendo, diventerà la sua grande alleata. “La sua non è stata una documentazione”, fa notare Curti, che è anche direttore artistico di questo luogo speciale, il più scenografico della Laguna, “ma di una vera classificazione, uno scegliere che lo spinse a fotografare le cose belle del mondo, ciò che lo rendeva felice anticipando un modo rivoluzionario per lo spirito della propria epoca fino a rivelarci il senso di un tempo oramai perduto”. Nei due piani dell’edificio sono 120 le immagini esposte, di cui 55 inedite. Sono quasi tutte in bianco e nero e rendono ancora di più quella trasfigurazione e astrazione tra qualità formali e contenuti accessibili. Lartigue, il fotografo della Belle époque che fu anche pittore, riuscì a raccontare la vita di una classe sociale agiata che era poi quella a cui lui apparteneva e che continuò a fotografare nonostante gli orrori delle due guerre mondiali. “La fotografia”, dice Curti, “diventa per lui il mezzo per riesumare la vita, per rivivere i momenti felici, ancora e ancora”. Una felicità, la sua, immaginata, vissuta e mai inventata, come dimostrò con i primi scatti dedicati a donne e uomini eleganti immortalati ai Grandi premi automobilistici o alle corse ippiche di Auteuil o in quelli successivi alla mostra a lui dedicata al Moma di New York che ne consacrò il successo. Fondamentale fu l’incontro con i fotografi di moda Richard Avedon e Hiro, e il primo in particolare gli chiese di scavare nel suo archivio per riportare alla luce alcuni scatti e creare un giornale fotografico. La selezione di queste immagini – alcune delle quali presenti in mostra – portò, nel 1970, alla pubblicazione del volume Diary of a Century, che lo consacrò definitivamente tra i grandi della fotografia del Novecento con una regola: fermare il tempo e salvare l’attimo dal suo inevitabile passaggio.

   

Jacques Henri Lartigue, Federico Fellini durante le riprese de "La Città delle Donne", Cinecittà, Roma, 1979 © Ministère de la Culture (France), MAP-AAJHL

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