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Prima di Chiara Ferragni. Le influencer del Rinascimento

Fabiana Giacomotti

Da Simonetta Vespucci a Isabella d’Este, da secoli la bellezza è al servizio dell’arte e non il contrario

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Cresciuta in esilio a causa degli intrighi di un parente, squattrinata per via della caduta di Costantinopoli che aveva privato la sua famiglia di beni e relazioni, andata sposa a sedici anni più per volere della famiglia che suo, spinta nel letto di Giuliano de’ Medici due minuti dopo essere arrivata a Firenze e infine morta a ventitré anni, forse di tisi ma con maggiore probabilità di peste. Questa fu Simonetta Cattaneo coniugata Vespucci, e potremmo sostenere che non ebbe vita felice nemmeno per gli standard quattrocenteschi, che pure ritenevano il corpo della donna e la sua volontà un bene nella piena disponibilità della famiglia e come infatti accadde con il suo, bellissimo e celebrato da Sandro Botticelli anche dopo la morte. Non parliamo dunque di una grande mecenate, né di una poetessa o di una letterata di vaglia che pure nel periodo non mancavano (pensiamo a Cassandra Fedele o ad Alessandra Scala che furono allieve del Poliziano e corrispondevano con Lorenzo de Medici). Parliamo invece di una ragazza nobile sì, ma di non eccelsa cultura, nessuna arte e ben pochi quattrini, che sfruttò per quanto possibile la straordinaria bellezza di cui la natura l’aveva dotata e la sua capacità di influenzare il lavoro di poeti, ricchi e pittori per trarne vantaggio personale, né più né meno delle tante che oggi cercano di farsi strada con i selfie plastici. Dunque, pur non volendo fare paragoni impossibili, al contrario dei tanti che li hanno fatti, non capiamo davvero che cosa possieda di tanto triviale Chiara Ferragni per non potersi scattare un selfie davanti alla Venere di Botticelli conservata agli Uffizi, a cui la bella Simonetta prestò il volto e chissà chi altra posò per quegli arti bene in vista, benché fu quasi certamente nessuna tanto sono distorti e idealizzati. In particolare, non capiamo che cosa abbiano da recriminare i critici che, in mancanza di altre argomentazioni, hanno osservato che la ragazza avesse realizzato un servizio agli Uffizi e non in uno dei nostri tanti bellissimi musei di provincia e bla bla bla. Già immaginate il seguito della tiritera, dunque non perderemo troppo tempo per segnalare che due giorni dopo, invitata fra i testimonial di Dior a Lecce per la presentazione della (splendida) collezione cruise, si è precipitata al Museo Archeologico di Taranto e ha prodotto stories su quegli incredibili orecchini di scavo e i serti a foglie d’oro intrecciate, e adesso alzate la mano per dirci che l’avete visitato anche voi, non vediamo l’ora di contarle. Soprattutto fa abbastanza pena, soprattutto per quel suo coté pateticamente classista, questa idea dei nostri intellettuali di auto-nomina che si debba sostare in muta trascendenza di fronte a tutte le opere di ogni tempo, fossero perfino quelle fatte dipingere a fini celebrativi e propagandistici, dunque per brindarvi di fronte, come per esempio la Primavera di Botticelli, con l’aranceto ben visibile e carico di frutti, gentile omaggio alla casata dei Medici da parte del pittore a libro paga e dunque, va da sé, ossequioso.

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Cresciuta in esilio a causa degli intrighi di un parente, squattrinata per via della caduta di Costantinopoli che aveva privato la sua famiglia di beni e relazioni, andata sposa a sedici anni più per volere della famiglia che suo, spinta nel letto di Giuliano de’ Medici due minuti dopo essere arrivata a Firenze e infine morta a ventitré anni, forse di tisi ma con maggiore probabilità di peste. Questa fu Simonetta Cattaneo coniugata Vespucci, e potremmo sostenere che non ebbe vita felice nemmeno per gli standard quattrocenteschi, che pure ritenevano il corpo della donna e la sua volontà un bene nella piena disponibilità della famiglia e come infatti accadde con il suo, bellissimo e celebrato da Sandro Botticelli anche dopo la morte. Non parliamo dunque di una grande mecenate, né di una poetessa o di una letterata di vaglia che pure nel periodo non mancavano (pensiamo a Cassandra Fedele o ad Alessandra Scala che furono allieve del Poliziano e corrispondevano con Lorenzo de Medici). Parliamo invece di una ragazza nobile sì, ma di non eccelsa cultura, nessuna arte e ben pochi quattrini, che sfruttò per quanto possibile la straordinaria bellezza di cui la natura l’aveva dotata e la sua capacità di influenzare il lavoro di poeti, ricchi e pittori per trarne vantaggio personale, né più né meno delle tante che oggi cercano di farsi strada con i selfie plastici. Dunque, pur non volendo fare paragoni impossibili, al contrario dei tanti che li hanno fatti, non capiamo davvero che cosa possieda di tanto triviale Chiara Ferragni per non potersi scattare un selfie davanti alla Venere di Botticelli conservata agli Uffizi, a cui la bella Simonetta prestò il volto e chissà chi altra posò per quegli arti bene in vista, benché fu quasi certamente nessuna tanto sono distorti e idealizzati. In particolare, non capiamo che cosa abbiano da recriminare i critici che, in mancanza di altre argomentazioni, hanno osservato che la ragazza avesse realizzato un servizio agli Uffizi e non in uno dei nostri tanti bellissimi musei di provincia e bla bla bla. Già immaginate il seguito della tiritera, dunque non perderemo troppo tempo per segnalare che due giorni dopo, invitata fra i testimonial di Dior a Lecce per la presentazione della (splendida) collezione cruise, si è precipitata al Museo Archeologico di Taranto e ha prodotto stories su quegli incredibili orecchini di scavo e i serti a foglie d’oro intrecciate, e adesso alzate la mano per dirci che l’avete visitato anche voi, non vediamo l’ora di contarle. Soprattutto fa abbastanza pena, soprattutto per quel suo coté pateticamente classista, questa idea dei nostri intellettuali di auto-nomina che si debba sostare in muta trascendenza di fronte a tutte le opere di ogni tempo, fossero perfino quelle fatte dipingere a fini celebrativi e propagandistici, dunque per brindarvi di fronte, come per esempio la Primavera di Botticelli, con l’aranceto ben visibile e carico di frutti, gentile omaggio alla casata dei Medici da parte del pittore a libro paga e dunque, va da sé, ossequioso.

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Il corpo di Simonetta Cattaneo coniugata Vespucci, bellissimo e celebrato da Sandro Botticelli anche dopo la morte


     

E’ abbastanza ridicola anche questa divinizzazione delle dame e delle fanciulle ritratte o usate a modello di discutibili divinità dell’Olimpo, come se non avessero dovuto barcamenarsi anche loro come quelle di oggi, e pure peggio. E’ patetica questa ostinata traslazione del soggetto nell’oggetto ideale, hegeliano, dell’arte, questa negazione della vita pulsante, spesso divertente ma altrettanto spesso sordida, che v’è dietro l’opera dei pennelli. Nel giro di due secoli, schiere di critici a caccia di legittimazione per sé (e in questo ci tocca inserire anche quel genio di Baudelaire, sigh) hanno trasformato la figura del pittore che un tempo si definiva felicemente artigiano e che concordava con il committente costo e ampiezza delle campiture (carissimo il verde, non solo il blu lapislazzulo) in un demiurgo, un santo, un taumaturgo, togliendo a poco a poco il piacere del semplice godimento dell’opera in nome di quella categoria inesistente dello spirito, per non dire delle tasche, che viene definita l’arte per l’arte. Volessimo legittimare visite, foto e selfie nei musei sulla base dell’etica, della moralità o dell’equiparazione socio-culturale fra visitatori e visitati, non è chiaro chi avrebbe titolo per farsi vedere dall’altro, e questo a prescindere dalle ovvie valutazioni sulla contingenza dei “valori morali”, cioè sulla loro diversa percezione a seconda delle epoche e che è disgraziatamente alla base della cancel culture di oggi.

        


La ridicola divinizzazione delle dame e delle fanciulle ritratte o usate a modello di discutibili divinità dell’Olimpo


     

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Per dirne una: da centinaia di anni, nella chiesa di san Maurizio di corso Magenta a Milano restaurata dal Fai, cioè “dalla Giulia Maria Crespi” che i milanesi definiscono con la consueta affettuosa presunzione “la nostra Cappella Sistina”, gli storici si interrogano sulla santa a cui Bernardino Luini diede il volto di Bianca di Challant. E’ la vedova allegrissima e assassina, decapitata nel 1526 nel Castello Sforzesco (all’epoca, castello di Porta Giovia) per il grande dolore di Matteo Bandello che ne aveva scritto nelle sue Novelle, invitando i tanti inconsolabili ad andarla a rimirare nella chiesa del “monistero maggiore”, fra le belle e le ricche che avevano prestato i tratti alle martiri con gli occhi e i seni nel piatto. La signora compare anche con il nome di Biancha Maria Vicecomtes (in prime nozze aveva sposato Ermes Visconti) nel ricco album modello pop up, con ritratti a scomparsa e piccole segrete di carta, che le dame della città regalarono a Francesco I di Francia al momento del suo ritorno a Chambord dopo l’occupazione seguita alla battaglia di Marignano. Ha il nasetto all’insù che i pittori occidentali di ogni tempo hanno attribuito alle donne capricciose, lo possedessero o meno, e indossa la reticella trapunta di perle che le ragazze d’Este – le prime influencer furono loro, e la loro influenza per nulla disinteressata si riverbera tuttora sui musei che i nostri integerrimi intellettuali vorrebbero preservare dai commerci – avevano lanciato come moda del momento e che sarebbe stata presto sostituita dalla grande invenzione di Isabella, la capigliara con cui sarebbe stata immortalata da Tiziano nel suo ritratto più famoso. Tutte in Europa la volevano imitare, aggiungendo nastri e posticci quando la dotazione naturale sembrava insufficiente, ma dolendosi soprattutto di non essere abili come lei, non ricca, nel procurarsi tutte quelle meraviglie che componevano la sua collezione di opere d’arte, stipetti e ceramiche comprese, e la sua dotazione personale di gioielli e sete.

     


  In mancanza di filtri Instagram, Isabella aveva una strategia: fissare per sempre la propria età pittorica ai venticinque anni


      

Una vita a dispensar consigli e trarne vantaggio, politico e personale: ecco a fine Quattrocento l’amante di Ludovico il Moro, Cecilia Gallerani, che le invia timorosa un suo “retracto”, confidando in un suo generale giudizio positivo; ecco la regina di Spagna che le chiede dove mai possa procurarsi certe tappezzerie ricamate. Però, visto che l’abbiamo citato, prendiamo come esempio un uomo, Francesco di Valois Angouleme che, dopo aver piagato Milano di tasse e balzelli e aver alloggiato i cavalli nello studio di Ludovico il Moro che Leonardo tanto per cambiare non aveva finito di affrescare, (la famosa Sala delle Asse restaurata solo un anno fa), decide sia giunto il momento di tornarsene sulla Loira. Uomo mondanissimo e, come si diceva allora, di gagliardi appetiti, con un debole per i broccati di seta, le pellicce e i profumi costosi, gli spiace di lasciare tutte quelle belle signore e quelle famiglie così accomodanti, i Bentivoglio e gli Atellani in particolare che tengono circolo, organizzano belle feste e si sono subito messi a disposizione. In quel momento, la corte di Francia non può certo rivaleggiare con i ducati e i marchesati del centro nord italiano in termini di eleganza, educazione e lusso (Caterina de Medici arriverà a insegnare l’uso delle posate e, dicono i francesi, anche dei veleni, quasi quindici anni dopo, nel 1533, ma continuerà a rivolgersi a Mantova e all’amica Margherita Paleologo per farsi realizzare le camicie di seta: un ritaglio di stoffa accluso a una lettera è ancora conservato fra i documenti di archivio).

   

Il paragone fra lo stile delle francesi e quello delle belle milanesi che per anni hanno goduto dei servigi di Leonardo da Vinci nell’ideare macchine per la stampa dei magete, le paillettes di metallo, e nell’imitare le pietre preziose per i loro bijoux, è davvero deprimente, perciò il re di Francia, dopo essersi assicurato la presenza di Leonardo che morirà poco dopo ad Amboise, scrive all’influencer del tempo, la marchesa di Mantova, se non gli avrebbe fatto la grazia di inviare qualcuna delle “pupe di legno” che tanto abilmente faceva vestire dai sarti perché le dame della sua corte potessero trarne ispirazione. Isabella, dopo essersi schermita e fatta pregare come da prassi, acconsente e gli spedisce un piccolo esercito di bambole abbigliate come lei e le sue dame dai suoi tessutai, artigiani orafi e calzaturieri, facendo loro, dunque, pubblicità.

     


  Una vita a dispensar consigli e trarne vantaggio, politico e personale: ecco a fine Quattrocento l’amante di Ludovico il Moro


   

Vogliamo ribadirlo anche perché questa smania attuale di sincronicità storica e di parallelismi impossibili è davvero preoccupante (cancel culture, again): è difficile, se non impossibile, trovare punti di contatto diretti fra le influencer e i buyer modaioli di oggi e la straordinaria Isabella che è all’origine delle collezioni dell’Ermitage; non ci sono però dubbi che, nelle sue lettere, si ritrovino in nuce molte delle figure più note della filiera di oggi: compare il “mediatore”, oggi stylist o personal shopper, che veniva incaricato di accordarsi con gli artigiani sulla produzione, talvolta in esclusiva, di valutare i modelli e di scegliere i tessuti selezionando fra le novità del momento, le attuali “tendenze”, prima di sottoporli al giudizio finale e all’acquisto del cliente. Dai carteggi di famiglia, che due anni fa furono oggetto di un convegno organizzato a palazzo Te da Marco Belfanti e Daniela Sogliani con il materiale digitalizzato dell’Archivio di Stato e già disponibile (per consultarlo, basta cercare sul web al portale “IDEA: Isabella d’Este Archive”, non c’è neanche bisogno della Ferragni, così non vi stranite), emerge chiaramente il valore del tessuto proto-imprenditoriale nord-italiano, fra Milano, Venezia, Roma e Firenze, a cui si rivolgeva la marchesa, “prima donna del mondo”, “equamente et in ogni parte bella” per soddisfare i propri desideri, e la sua astuzia nel trattare: ci sono lettere che sono l’equivalente di un lungo post promozionale, e anche autopromozionale, come la divertentissima missiva inviata a Baldassarre Castiglione dove la “marchesana” racconta del crollo di un palco dove si trovava con un gruppo di signore che, invece di seguire i dettami del suo entourage, non indossavano i “chalzoni” sotto le gonne, e “fecero un bel vedere”, mentre “noi li havevamo”. In mancanza di filtri Instagram, Isabella procedeva con la stessa strategia che avrebbe adottato entro breve Elisabetta I di Inghilterra: fissando per sempre la propria età pittorica ai venticinque anni.

     

Il ritratto molto ammirato di “messer Ticiano” è del 1534, e vi compare una bella ragazza dai capelli biondi e gli occhi brillanti, le gote pienotte e il broncio malandrino. All’epoca, Isabella aveva circa sessant’anni, la sorella Beatrice che amava farsi cucire le pietre matte di Leonardo sui vestiti era morta da un pezzo. Vedete voi. Di Elisabetta I, si ricorda quella volta che percorse tutta l’Inghilterra senza essere riconosciuta perché nessuno poteva credere che quella vecchia sdentata fosse la stessa vergine dai capelli rossi lunghi e sciolti dei ritratti appesi in copia un po’ ovunque. Mantenere un ruolo a vita è uno sforzo di ingegno prima ancora che politico, e Isabella poteva rimandare indietro un ritratto o un dipinto che non la soddisfacevano perché fosse aggiustato per anni interi e i pittori lì pronti, col pennello e il berretto in mano. Adesso, però, le schiere dei non-Ferragni arrivano a Kunsthistorisches Museum di Vienna, prendono a prestito i due versi di Keats mandati a memoria e cianciano di verità che è bellezza.

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