PUBBLICITÁ

“Wakefield” è un buon antidoto all’egolatria straparlante oggi di gran moda

Marco Archetti

Il racconto di Hawthorne che inchiodò anche Harold Bloom

PUBBLICITÁ

Chiamiamolo Wakefield. Oppure chiamiamolo in un altro modo. Chiamiamolo con un nome qualunque – in fondo lo era, un uomo qualunque. Un uomo di età mezzana, la cui vita affettiva era costituita da sentimenti abitudinari. L’immaginazione non era affar suo, ed era alieno a ogni eccentrismo. Eppure, al crepuscolo di un giorno di ottobre, se n’è andato. All’improvviso ha aperto una breccia nella sua felicità coniugale e, col suo soprabito grigio, un cappello di tela incerata e la valigetta, è partito e non è più tornato. Per un totale di vent’anni di assenza, durante i quali lui ha vissuto a un solo isolato di distanza e la derelitta signora Wakefield non ha avuto più sue notizie. “Dovessi ritardare tre o quattro giorni,” le ha detto prima di andarsene, “non ti allarmare”. Si può immaginare che lo stesso Wakefield non sospettasse nulla di ciò che stava per fare e che l’idea di quei vent’anni di assenza gli fosse, al momento, ignota? Un attimo prima che la porta si chiudesse, la signora Wakefield vide dallo spiraglio il volto del signor Wakefield. E il signor Wakefield le sorrise.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Chiamiamolo Wakefield. Oppure chiamiamolo in un altro modo. Chiamiamolo con un nome qualunque – in fondo lo era, un uomo qualunque. Un uomo di età mezzana, la cui vita affettiva era costituita da sentimenti abitudinari. L’immaginazione non era affar suo, ed era alieno a ogni eccentrismo. Eppure, al crepuscolo di un giorno di ottobre, se n’è andato. All’improvviso ha aperto una breccia nella sua felicità coniugale e, col suo soprabito grigio, un cappello di tela incerata e la valigetta, è partito e non è più tornato. Per un totale di vent’anni di assenza, durante i quali lui ha vissuto a un solo isolato di distanza e la derelitta signora Wakefield non ha avuto più sue notizie. “Dovessi ritardare tre o quattro giorni,” le ha detto prima di andarsene, “non ti allarmare”. Si può immaginare che lo stesso Wakefield non sospettasse nulla di ciò che stava per fare e che l’idea di quei vent’anni di assenza gli fosse, al momento, ignota? Un attimo prima che la porta si chiudesse, la signora Wakefield vide dallo spiraglio il volto del signor Wakefield. E il signor Wakefield le sorrise.

PUBBLICITÁ

 

E’ molto difficile raccontare Wakefield, sparuta manciata di pagine con cui Nathaniel Hawthorne consegna alla letteratura uno dei racconti più importanti e vertiginosi che siano mai stati scritti. Harold Bloom, ne Il canone americano, ci aiuta a livello prospettico. “Nei suoi momenti letterari più poderosi”, scrive, “Nathaniel Hawthorne spalanca le porte dell’altro regno come farà Kafka un secolo più tardi. Il suo Wakefield, il racconto preferito di Borges, regge il confronto con Bartleby lo scrivano di Melville. Nella migliore delle ipotesi una completa nullità, Wakefield si allontana per vent’anni dalla sua casa di Londra abbandonando la moglie e prende alloggio a un solo isolato di distanza. Perché?”. Già. Perché? Difficile rispondere, forse impossibile. E poi va detto: leggere Wakefield è più appagante che analizzarlo. Come sempre, quando un’intuizione travalicante esige di essere spiegata e sviscerata non ci corrisponde, non se ne fa nulla delle nostre speculazioni, tra le mani ci lascia poco più di niente – un polverio, una labile traccia. Ogni grande idea, alla luce dell’autopsia, cela il poco, il quasi nulla, la latitanza più che la sostanza, un’assenza più che una presenza. E’ come sottoporre a un interrogatorio una farfalla. La grandezza delude ogni setaccio. E’ il mistero del genio. “Quest’opera”, scrive Bloom, “ha un riverbero sproporzionato rispetto al tono lieve, eppure io la leggo di continuo, la passo al setaccio per trovare quello che non c’è. Il genio di Hawthorne sa come fare”. Proviamo a capire? Nessuno vorrebbe uscire a cena coi Wakefield – noia garantita. Wakefield non è né un ebreo errante né un vecchio marinaio né un brioso satanasso – quindi non avrebbe nulla da raccontarci. Anzi, se tendiamo l’orecchio è possibile percepire l’ordinarietà di ogni sua opinione, la superfluità di ogni osservazione. “Wakefield”, cala l’ascia Harold Bloom, “è un babbeo”. Ma allora perché ci inchioda? Perché non ci lascia più? Quale incantesimo Hawthorne è riuscito a realizzare con tanta miseria di ingredienti?

 

PUBBLICITÁ

La capacità di Hawthorne è che, nei suoi testi, ogni azione è generata da un’immagine. Così, a ritroso – cioè ad azione generata –, le sue immagini assurgono. Esattamente come in Kafka. Il suo Wakefield assurge e diventa più di se stesso. Diventa uno sguardo gettato verso un abisso, verso qualcosa che ci tenta perché sappiamo di contenerlo: questo racconto siamo noi stessi, chini su uno strapiombo. A metà del suo autoesilio – autoesilio mai spiegato – Wakefield si imbatte per strada nella moglie. Ma la folla li sospinge l’uno lontano dall’altro. Di lì a dieci anni si deciderà a tornare a casa, e sarà un marito affettuoso fino all’ultimo dei suoi giorni. Fine.

 

O inizio? In questo racconto si intravedono anche una circolarità e un autocannibalismo, entrambi difficili da spiegare. Perché poi la parte più importante ce la mette chi legge. Ce la mette il desiderio di sapere di più. E Hawthorne che schiude di poco la persiana. E intanto Wakefield ci calamita, monopolizza ogni nostro pensiero. E ha moltissimo da dire a noi e all’egolatria straparlante e strapensante nella quale viviamo immersi: per vedere l’io, Wakefield deve farsi non-io. Per vedere meglio, si allontana. Si stacca da sé, per comprendere il sé. E così l’altro regno di cui parla Harold Bloom – lo strapiombo su cui siamo chini – è, forse, solo uno specchio: l’altro di ogni regno.

PUBBLICITÁ